mercoledì 16 febbraio 2011

TRE VIAGGI DEL PAZ


Primo: dove si scopre che a lui tutto era perdonato, nulla rifiutato

Andrea era uno che non aveva bisogno di prendere appuntamenti.

La redazione di Linus all’alba degli anni Ottanta era in un condominio con le piastrelle lucide, in un cortile davanti al palazzo Rizzoli dell’omonima via. Allora l’editore si chiamava ancora Milano Libri, ma era già stato assorbito dal grande gruppo editoriale. Per arrivarci si prendeva la metropolitana verde, direttamente in Stazione Centrale, direzione Cologno-Gessate, fermata Crescenzago. Si trattava di una meta cruciale per ogni autore di fumetti.

Il direttore era (ma ancora per poco, perché se ne sarebbe andato sbattendo la porta per protesta contro gli uomini della loggia P2 che avevano colonizzato Rizzoli) Oreste del Buono. Quando era in sede, se ne rimaneva chiuso nel suo studio e faceva rare sortite nell’open space della redazione.

Redazione composta esclusivamente da donne.

Andrea era il tipo del mascalzone latino. Uno che con le donne sapeva farci. A differenza dell’autore medio di fumetti.

All’autore di fumetti, specie se giovane, sudavano le mani per l’emozione all’idea di poter incontrare Oreste del Buono (che di lì a poco sarebbe stato tra i fondatori de L’Eternauta, un altro pezzo di storia delle riviste a fumetti, e avrebbe dato il suo contributo di idee, ma si favoleggia anche economico, alla nascita di Frigidaire…). E quando incontrava le ragazze della redazione, all’autorucolo venivano i crampi a causa dei sali minerali persi. Erano ragazze capitanate dall’art director caporedattore Fulvia Serra, destinata dopo l’abbandono di OdB ad assumere il ruolo direttoriale. Il giovane autore arrivando in redazione si ritrovava al centro dell’open space, in cui le scrivanie delle ragazze si fronteggiavano, e lì iniziava una specie di esame di stato, in cui donne che avevano tutto quello che un ragazzo timido teme nell’altro sesso, lo vivisezionavano: loro erano per la maggior parte carine; erano colte; erano argute; erano sarcastiche e non vedevano l’ora di esercitare i loro poteri sui malcapitati. L’immagine del gatto che si trastulla con il topolino tramortito scuotendolo e rollandoselo con le zampe, con la variante di un morso d’assaggio di tanto in tanto sarà anche abusata, ma in questo caso è esatta. Il giovane autore poteva anche essere un collaboratore acquisito, ma si sentiva continuamente messo in discussione. Sballottato tra battute e sguardi dubitativi, estraeva la cartella con le sue tavole a china, mostrava il tutto e rimaneva in pena di fronte alla pausa di silenzio. Arrivare da Bologna significava spesso essersi alzati al primo sole (d’inverno prima…), forse aver bevuto un caffè in fretta, essere saliti al volo in treno ed essersi risvegliati a destinazione con la bocca impastata e con lo stomaco che pulsava come un cuore aggiunto.

Le ragazze di redazione facevano diventare il suo imbarazzo, la sua scarsa brillantezza, il diversivo della tarda mattinata.

Andrea era uno che non era mai in difficoltà, perché aveva un bel sorriso, la erre dei seduttori e la battuta sempre pronta. Era anche un bel ragazzo. Anzi, per essere precisi non era proprio un bello, ma era di bella presenza, che è quello che conta. Poteva succedere che lui piombasse in redazione anche senza appuntamento, all’ora che gli pareva, e che le ragazze squittissero felici.

Come quella volta.

Andrea aveva una voce nasale, o forse adenoidale, un po’ da vecchio nobile decaduto (come Totò nella memorabile interpretazione del barone Ottone Spinelli degli Ulivi detto Zazà in Signori si nasce), e poteva chiedere qualsiasi cosa. Tu eri lì che stavi mostrando le tue tavole, lui ti salutava, salutava loro, e loro si dimenticavano di te.

Le teste si giravano verso di lui e sembrava che stesse per iniziare un balletto di Grease. “Ciao, come va?” Guardava i disegni del collega. “Belle queste tavole. Belle… è bravo questo ragazzo.” Ti segnalava declassandoti a un esordiente che mostrava i suoi primi lavori. Poi si disinteressava completamente di te come se fossi uno degli ombrelli dimenticati all’attaccapanni all’entrata, e passava allo show: “Ragazze, ce l’avete un tavolo per me che devo finire di disegnare una pagina?”

“Ti sgombero la mia scrivania!” era la risposta moltiplicata per il numero delle ragazze.

“Bene, prendo la tua… Ma prima avrei bisogno di un piccolo favore.”

“Sì…?”

“Posso farmi la doccia, magari un bagno… ho visto che tanto avete la vasca… c’è l’acqua calda?”

“Certo.”

“Perché sono arrivato proprio adesso da Bologna e ho dormito solo due ore. Stanotte ho lavorato per finire i disegni. Ma non ce l’ho fatta.”

“Vieni, ti do un asciugamano.”

“Ragazze, siete degli angeli.” Quindi baciava castamente le ragazze più vicine a lui, che arrossivano come liceali al primo incontro.

Nel frattempo il fumettista giaceva mogio, in compagnia del suo appuntamento, dimenticato nei pressi di una scrivania.

Quella volta Andrea entrò nel bagno, riempì la vasca fischiettando allegro. Le ragazze si guardarono l’un l’altra con sguardi birichini: non riuscivano a trattenere risolini d’emozione, si coprivano la bocca con la mano alla ricerca della fanciulla in fiore dimenticata ormai in loro. Andavano avanti e indietro davanti alla porta del bagno per chiedere ad Andrea se aveva bisogno di qualcosa.

Tutta la redazione era mobilitata, finché non arrivò la richiesta: “Ragazze, e quell’asciugamano che mi avevate promesso?”

La porta del bagno era socchiusa dall’interno. La richiesta arrivò da quello spiraglio malizioso. Quale delle donne avrebbe avuto il privilegio del brivido, avvicinandosi a quella fessura dal sapore proibito?

Ci fu una lunga pausa in cui si scambiarono sguardi che mescolavano paura, eccitazione, sfida, trepidazione… e infine invidia.

Nel frattempo l’autore attendeva ormai rassegnato in un angolo, sfogliando svogliato alcuni cartonati francesi impilati su una scrivania vuota.

Andrea era uno che non subiva le pause.

I tempi morti li dirottava sugli altri.

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