venerdì 1 luglio 2011

FIRST SKIN





Prove di skin per iPhone realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm10x14 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana.

lunedì 30 maggio 2011

PETER BICHSEL: ASPETTARE E BASTA


Lei ha scritto che Sherwood Anderson è il grande poeta della noia della provincia. Si può dire lo stesso anche di lei?

Suppongo di sì. Sherwood Anderson è il padre della letteratura americana moderna, anche di Hemingway che probabilmente è stato, dal punto di vista della costruzione del racconto, il suo migliore allievo, Queste short stories che finiscono senza colpi di scena, persino nel caso di racconti avvincenti, come “The killers” di Hemingway, ci si accorge solo alla fine che è un racconto della noia. Raccontare è avere a che fare con il tempo, e il tempo è anche la sua durata, in tedesco è bellissimo, la noia si chiama Lange Weile, il momento lungo, in svizzero tedesco si dice addirittura il tempo lungo e significa anche nostalgia. Senza noia non c’è nostalgia e scrivere ha a che fare con la nostalgia. Probabilmente Sherwood Anderson c’è stato sempre, Omero del resto era uno Sherwood Anderson.

La sua ultima raccolta uscita in italiano s’intitola Quando sapevamo aspettare. Dietro questa frase c’è molta nostalgia del passato. Cosa rimpiange di ciò che non è più?

Questa faccenda di ciò che oggi non è più, è una vecchia storia. In realtà era così già duemila anni fa. Questa storia della nostalgia non riguarda solo il Diciannovesimo secolo o il Ventesimo, riguarda la storia di tutta l’umanità. L’idea che la vita che abbiamo potrebbe essere diversa, anche l’utopia politica che ci fa sperare in un mondo migliore, più decente più umano può facilmente diventare l’idea che un tempo un mondo così ci fosse davvero, Dio ha creato un mondo meraviglioso e noi l’abbiamo rovinato: per quanto questa idea mi piaccia, so che non corrisponde al vero.

Lei dice che non esistono più le comunità perché sono venuti a mancare i rituali, quella di oggi è dunque una comunità senza identità?

Prendiamo la Svizzera. Un paese molto fiero della sua cultura quadrilinguistica. In realtà non ha mai avuto una cultura multilinguistica, le quattro lingue non hanno mai davvero convissuto, al contrario, le diverse culture sono sempre state lì, l’una accanto all’altra, ben separate tra loro. Non siamo l’esempio di una cultura comune tra le lingue; siamo invece l’orribile esempio di una cultura smembrata. L’identità della Svizzera: cos’è rimasto? Forse una nostra identità è l’esercito, che alla fine serve solo per questo, se avessimo un’dentità culturale non ci servirebbe l’esercito. E l’altra identità è la prosperità. Ci sono paesi poveri che pur essendo poveri conservano un’identità, il Portogallo mi sembra che ce l’abbia un’identità. Una Svizzera povera – e una Svizzera povera non è del tutto improbabile – non credo che esisterebbe più, perché mancherebbe la sua forma sostanziale di identità: la ricchezza. E a proposito della società svizzera, se penso a Soletta, il mio paese, quand’ero giovane, circa quarant’anni fa la società solettese mi sembrava unita c’erano i grandi ristoranti, dietro sedevano i ricchi a metà la media borghesia e davanti gli ubriaconi, e la sera tardi le diverse parti si mescolavano. Oggi questi posti non ci sono più, non ci sono più le osterie e quelle che rimangono la sera non sono più piene zeppe. Nel frattempo è sorta la società dei party, la società dei barbecue: dieci, quindici, venti persone che per tutta la vita si incontrano davanti a quella stupida griglia dove arrostisono carne fino a disintegrarla. Le persone oggi vivono tutte nei ghetti. Ghetti dei ricchi, dei mezzi ricchi, dei mezzi poveri, dei poveri, siamo diventati una società ghettizzata e questo ormai non si può più cambiare.

Nel suo libro l’unico accenno indiretto al mare è legato alla barca a vela e al periodo in cui Alinghi di Bertarelli vinceva la Coppa America. Lì lei si chiede, la Svizzera nazione di velisti? Scusate ma da questa nazione io mi ritiro.

Insomma orologi, cioccolata e un eroe che tirava alle mele, per dirla con Max Frisch: è questa la Svizzera di Peter Bichsel?

Sa, credo che tutta questa storia della cioccolata, degli orologi, delle mucche e della libertà, non sia più da tempo l’immagine che hanno gli stranieri della Svizzera, ma purtroppo è l’immagine che abbiamo noi. Ho l’impressione che gli svizzeri non si siano mai fatti un’idea precisa del loro paese, se la sono sempre lasciata fornire dagli stranieri, e nel momento in cui gli stranieri non sono stati più così entusiasti della Svizzera, allora gli svizzeri sono tornati alla cioccolata e agli orologi. Quando Frisch fu additato dalla borghesia come “nemico numero uno dello Stato” il problema era proprio quello: Frisch si era fatto un’idea di questao Stato. E questo non va. Di cio che è grande non devi farti immagine alcuna, è così che dice la Bibbia, no?

Le stazioni, i treni sono luoghi dell’attesa ma anche luoghi di fuga. Lei è una persona molto concreta, ma anche sognatrice e visionaria, cosa pensa della morte?

Eh sì, l’ha presa larga, ma è giusto così. Cominciamo dalle stazioni, i primi italiani che venivano in Svizzera a lavorare dopo la guerra, il sabato e la domenica stavano alla stazione, stavano tutti alla stazione perché è il posto dove chiunque può sentirsi parte di un tutto: stranieri o non stranieri, si fa parte di un insieme. Io sto molto volentieri da solo ma non ho la minima tendenza a isolarmi, sto volentieri da solo tra la gente, tra molta gente e questo per me è la stazione. E poi c’è l’attesa, aspettare è qualcosa di meraviglioso, essere in attesa, una donna incinta aspetta un bambino, aspettare qualcosa, di nuovo la nostalgia, o aspettare e basta. Come il mio amico mortalmente malato che aspettava, non la morte, aspettava e basta. Far parte di un tutto significa: la mia morte per me è qualcosa di certo, è sicuro che morirò e la questione è solo quando.

Mi attengo a Cartesio che ha detto: tutti quanti devono morire, forse anch’io.

Ha scritto di aver letto molto soprattutto per il piacere della lingua. Perché allora ha scelto di scrivere in tedesco e non nel suo amato dialetto?

In primo luogo c’è un errore. Da bambino io non leggevo per via della bellezza della lingua ma per via delle lettere dell’alfabeto. Amavo le lettere, amavo questa cosa meravigliosa per cui con sole sei lettere si può avere un albero, un albero bellissimo, l’albero per eccellenza. Ora c’è il computer, prima c’era la macchina per scrivere, io non posso scrivere a mano, perché se scrivo a mano non vedo quante sono le lettere che ho a disposizione, sono le lettere, solo le lettere, che mi attraggono. Un tempo ero dipendente dalla lettura e potevo leggere qualunque cosa, persino cose che non capivo. Poi c’è il fatto di scrivere in tedesco e non in dialetto. Abbiamo un dialetto che vive senza le lettere dell’alfabeto e abbiamo la lingua ufficiale scritta che vive con le lettere dell’alfabeto. Uno svizzero tedesco quando parla il tedesco, anche se lo fa per professione, anche se è un attore, avrà sempre le lettere dell’alfabeto che scorrono davanti agli occhi. Inoltre si può scrivere soltanto in una lingua artificiale, in qualunque lingua si scriva, anche un dialetto, anche l’italiano, bisogna prima stabilire dei parametri, inventarsi un piano stilistico.

Per noi svizzeri tedeschi, rispetto al tedesco, la questione è molto semplice, siamo in una posizione ideale. Intanto il piano stilistico c’è già, l’elevatissima lingua tedesca, in secondo luogo c’è la questione dell’estraniazione, ne ha parlato anche Brecht, prima ancora di cominciare a scriverlo, per noi il tedesco risulta straniante: una lingua che non è straniera ma è lievemente estranea. Il tedesco ufficiale ci appare come un dialetto che non conosciamo bene.

Infine le chiederei perché ha scelto di scrivere, ma mi sembra quasi pleonastico…

Perché si scrive? Tutti pensano che sia una domanda stupida. Non è stupida affatto, è una domanda molto intelligente, ma è semplicemente una domanda a cui non si può rispondere. Forse tutto quello che si scrive non è nient’atro che un tentativo inutilizzabile di rispondere a questa domanda.


Intervista a Peter Bichsel di Giorgio Thoeni, RSI, 7 maggio 2011 (traduzione Anna Ruchat)

mercoledì 25 maggio 2011

APOCALISSE SETTE










Altri disegni dal progetto artistico "Apocalisse", realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm14x10 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana...

lunedì 23 maggio 2011

ESSI VIVONO


È l’unico zoo in cui gli animali pagano per stare in gabbia. L’utopia realizzata è il Salone del Libro di Torino, un luogo in cui il paradosso della cultura tenuta al guinzaglio si realizza con il consenso delle vittime. Solo i masochisti approvano le proprie umiliazioni. E gli editori godono di essere infilati al Lingotto, un posto che ha l’aspetto di un grande garage, dove il rumore di fondo è una sinfonia cacofonica che stordisce i visitatori nel giro di poche ore (la sua efficacia raggiunge l’apice con gli standisti costretti a rimanere dalle dieci del mattino alle dieci di sera per cinque giorni – e se non bastasse il venerdì e il sabato fino alle undici – pena una multa per inadempienza contrattuale). Il lunedì le scolaresche sciamano per le corsie trionfanti per aver schivato una giornata di scuola.

Il Salone del Libro di Torino è un lager in cui dalla Sala Rossa mandano a tutto volume, con casse audio poste all’esterno, un cabarettista locale mentre intrattiene liceali annoiati con battute stantie su Leonardo da Vinci. Un lager in cui per ironia della sorte il paese ospite è la Russia, con un padiglione che suscita rigurgiti bolscevichi per la sua bruttezza. Il direttore Ernesto Ferrero circola per le corsie piegato con un fascio di carte stretto sotto braccio e somiglia sempre di più a un Giulio Andreotti che ha abbandonato la politica (anche se cariche come le sue non sono esenti da un contesto politico, poteva evitarsi la reprimenda a Franco Cordero).

Sì, il Salone è un’istituzione inutile che dichiara non solo il crepuscolo della cultura in Italia e i soliti giochi di piccoli poteri destinati a ingrassare una casta (e non ci si chieda se di destra o di sinistra… ma quale “sinistra”?), perché la questione, se ci si occupa di fumetti, si rivela smaccata umiliazione. Il Salone del Libro di Torino deve delle scuse agli editori di fumetti per averli chiusi in un ghetto all’interno di un brutto zoo, per avergli inflitto la legge del lager. È paradossale che mentre tutti gli editori maggiori, medi o piccoli, snobbano il fumetto ma provano ad attrezzarsi con una loro collana di “graphic novel”, il Salone releghi chi ha interi cataloghi dedicati (e di qualità) in un recinto denominato “Comics Center”, confinato in un angolo chiuso da un’area dedicata alla musica in cui i visitatori provano tutto il tempo pianoforti e batterie e una piccola etichetta jazz mette a tutto volume a nastro continuo “Besame Mucho” (il tormento di “Besame Mucho” entra nella testa, accompagna gli standisti delle due aree all’uscita, penetra nei sogni e, in un loop inevitabile, sfuma al mattino sulle note che provengono nuovamente dallo stand dell’etichetta). La zona degli incontri del fumetto è sprofondata in una specie di angolo della vergogna a cui, giustamente, nessuno si azzarda ad avvicinarsi (tranne quando si insegna a disegnare Geronimo Stilton, che con i fumetti c’entra come Fabrizio Corona con il noir). Invisibilità a pagamento, neanche i visitatori che ti buttano le noccioline… anzi, l’unico posto dove puoi procurarti da mangiare e da bere è la catena Autogrill, che evidenzia quanto cibo e acqua siano preziosi nel mondo visto che una bottiglietta d’acqua costa un euro e trenta e per mangiare al self service bisogna accendere un mutuo in banca.

Dall’entrata del padiglione lo stendardo dell’Area Musica impalla esattamente quello del Comics Center, così da renderlo perfettamente invisibile. Del resto facendo una proporzione sulla metratura probabilmente gli stand fuori dall’area, in mezzo agli editori non discriminati, hanno un costo simile. Forse peggio del Comics Centre c’è solo l’“Incubatoio”, suq di stand minuscoli concentrati in un angolo nascosto, come se il Salone si vergognasse pure di loro, che sarebbero le realtà in crescita. Zona che uno dei malcapitati standisti ha battezzato appropriatamente l’“Inculatoio”. Ci sarebbe anche da dire dell’Oval, dove spiccano gli stand regionali, uno più brutto e inutile dell’altro, e quello dell’Emilia Romagna ha l’unico pregio di essere invisibile, e quindi discreto nel pressapochismo “fai da te” dell’allestimento. Bisogna avviare persino una ricerca per trovare dove hanno messo il nome…

La constatazione è che al Salone la differenza non piace, va resa inoffensiva, depressa, minimizzata. La gente si accalca ad ascoltare Moccia o Rampini o Nedved che con la cultura hanno poco a che fare (ma un Salone dedicato alla cultura non dovrebbe fare delle scelte culturali visto che sostiene di non farne di politiche?). I visitatori si aggirano come zombi in un supermercato per entrare a contatto con i libri delle solite case editrici (allo zombi piace lo sfavillio, l’odore della carne, il bagliore della memoria che gli ricorda colazioni da Tiffany che sopravvivono solo nella sua fantasia…). Eccoli tutti da Mondadori, Einaudi, Rizzoli, Bompiani, Guanda, Longanesi, Feltrinelli…

Un ragazzo arriva a uno stand di fumetti con una busta di Mondadori.

“Posso chiederti cos’hai lì dentro?”

Estrae vari Oscar Mondadori. Nella maggior parte dei casi classici.

“Ma scusa quelli li trovi in qualsiasi libreria italiana, come ti è venuto in mente di comperarli proprio qui?”

“Non so. Forse perché a casa non mi capita spesso di andare in libreria… Li ho visti, li ho comperati.”

Forse la soluzione giusta per lo stand era la sfera a specchi da discoteca. La musica c’era: “Besame, 
besame mucho 
como si fuera ésta noche 
la última vez…”

mercoledì 27 aprile 2011

APOCALISSE SEI










Altri disegni dal progetto artistico "Apocalisse", realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm14x10 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana...

sabato 26 febbraio 2011

CHINA PROFONDA


Alla fine degli anni Settanta in Italia non esistevano scuole del fumetto a cui rivolgersi e gli aspiranti autori andavano ad assillare con i loro tentativi l’elite di coloro che lo erano già. Chiedere consigli, cercare un confronto con chi aveva un riscontro professionale era il principale strumento di verifica del proprio lavoro. C’era chi arrivava da Bonvi e poi rimaneva ad aiutarlo a inchiostrare, chi inseguiva Manara a Lucca Comics, chi sudava freddo davanti a Magnus (burbero e irrefrenabile) e chi ascoltava quel Tartarin di Tarascona di Hugo Pratt mentre distillava fanfaronate e perle di saggezza fumettistica. Il fumetto era uscito dalla sua fase artigianale (in cui, specie nel seriale, non si dichiarava la differenza tra un autore e l’altro) e l’epoca della ricerca dei confini del linguaggio inaugurata da Linus, ripercorrendo tra l’altro i modi di raccontare del fumetto sin dalle sue origini con importanti recuperi storici, era ormai un patrimonio comune di autori e lettori. L’esordiente del momento, impegnato a produrre prove e brevi storie in quel periodo, sperando di accedere all’universo del fumetto d’autore aggiungeva un’altra variabile all’evoluzione del fumetto, ed era quella che nasceva dalla tecnica e dai materiali. Cosa usare per disegnare e quanto si poteva essere originali quando si utilizzava quel particolare materiale o quello specifico strumento? È lecito inchiostrare con il pennarello? E la penna Bic? E le fotocopie, che effetti si possono ottenere con una buona fotocopiatrice?

L’Autonomia bolognese era molto simile ai giovani virgulti del fumetto che arrivavano in città sospinti dalla novità del “Penthotal” di Andrea Pazienza e da tutti gli altri autori di cui Andrea era la scintillante punta emergente, e non solo perché spesso l’autore era militante quanto migliaia di giovani della sua età, ma perché la forse abusata “fantasia al potere” era un punto di riferimento comune. L’Autonomia bolognese era, a differenza di quella di altre città, legata all’immaginario, derivava direttamente dal Situazionismo di Guy Debord, e vedeva nel raccontare la realtà sotto l’impulso della creatività una forma di eversione profonda e invincibile.

Il giovane disegnatore arrivava a Bologna, la città in cui cresceva il fermento del nuovo fumetto, sapendo di essere in un centro di ricerca e sperimentazione, spaventato a morte dalla possibilità di non riuscire a superare la propria incapacità. E in quegli anni andava a trovare non solo gli autori di vecchia data ma cercava di mescolarsi agli innovatori, ai controculturali delle riviste autogestite, di Cannibale e poi di Frigidaire, convinto di poter trovare un’identità solo tra i propri simili e che per essere simile, per paradosso, doveva essere anche lui diverso, unico.

L’esotismo del fumetto argentino era un misto di segreto e ammirazione. Ovviamente consapevoli che quegli autori usavano i loro strumenti anche come forma di ribellione al regime… Tutti a studiare sulla stampa incerta delle riviste di allora come Alberto Breccia ottenesse il suo impasto di mistero e avanguardia: collage, china, matita… tecniche miste, ma quali?

Di quella scuola faceva parte anche José Muñoz. Muñoz, insieme a Sampayo, aveva creato il detective Alack Sinner, un poliziesco metropolitano, ambientato in una New York improbabile che sembrava una versione della Grande Mela di New Hollywood elevata all’ennesima potenza di satira e perfido grottesco. La pisciata di Alack Sinner che era il perno narrativo di un’intera pagina, era considerata la più grande provocazione nel fumetto dai tempi di Krazy Kat e Popeye, e gli estimatori del fumetto d’autore tradizionale gridavano orrore (dimenticando da dove tutto era nato, da quel monello sudicione di Yellow Kid…). Alack era un personaggio scomodo, trasandato, emarginato… Altro che I guerrieri della notte di Walter Hill (che comunque era posteriore di qualche anno ad Alack), le persone pericolose disegnate da Muñoz appartenevano alla classe media: facce inguardabili, marchiate dall’acne, segnate da espressioni intollerabili in una sorta di aggiornamento alla Grosz di una Repubblica di Weimar dell’anima globale. La New York di Muñoz non era un posto specifico, andava considerata come minimo metonimia della macchia umana. Anche se qualche parentela con i film di Scorsese, da Mean Streets a Taxi Driver, l’aveva, ma non c’era redenzione, solo l’estrema malinconia del fallimento. Era una New York contaminata da Buenos Aires, con un’aria porteña che corrodeva la pelle e le facce, lasciando spiriti gretti e scarnificati. E i giovani disegnatori che si muovevano per Bologna, tra un film d’essai e l’altro, tra una birra e quella dopo, si domandavano come usasse i suoi strumenti. Il segno era sempre più impressionante: un nero graffiato che andava in concorrenza con la descrittività del disegno, lacerando la definizione dei contorni e dando una forte sensazione di materia anche nel bianco e nero netto. Come in un’opera di Fontana, il segno di Muñoz sembrava una ragnatela di tagli inferti alla pagina. Doloroso, sofferto, impietoso, slabbrato, casuale, preciso… contraddittorio fino alla vertigine.

“Secondo me usa il pennino e una carta molto sottile.”

“Non è cartoncino da disegno, è carta qualunque.”

“Comunque è pennino. Vedi che ci sono dei piccoli spruzzi?”

“Un Brause? Ma piccolo o di quelli più grandi?”

“Usa china da stilografica, che è più liquida. Se no non otterrebbe quell’effetto di assorbimento…”

Insomma era un insieme di congetture. Chi collaborava già con Linus progettava un’operazione degna di una missione spionistica oltre le linee nemiche: intrufolarsi nell’archivio delle tavole in lavorazione con la complicità di qualche redattrice. Di andare a trovare Muñoz, che viveva a Milano, non se ne parlava, con quei disegni un po’ di paura la metteva. Circolava voce che fosse un uomo estremamente sarcastico ed era oggettivamente troppo bravo per affrontare il suo giudizio.

“Lorenzo ha conosciuto Muñoz,” disse qualcuno un giorno. Era un privilegio invidiato. Ma Mattotti era indecifrabile, descriveva le cose per ellissi, si perdeva nei discorsi e a volte pareva proprio che volesse tenersi tutto per sé. Niente era dato sapere di come disegnasse Muñoz, il segreto era conservato nella vaghezza delle parole di Mattotti. Ma quale pennino usava? Chissà. E prima faceva le matite o uno schizzo a parte e poi andava sulla pagina direttamente con l’inchiostro, senza nessun layout sotto? Non era dato saperlo. “Cazzo hai visto, Lorenzo?”

Era difficile essere un gruppo, anche se il gruppo era la cosa che ti dava più visibilità, come una band musicale e, come in una band, si litigava sempre. O c’erano piccole inimicizie. Nessuno pensava alla reticenza di Mattotti come a una forma di autismo poetico: lo faceva a bella posta per tenersi tutte per sé le scoperte fatte grazie a Muñoz! E contribuiva a renderne ancora più mitica e incombente la figura.

Poi fu la volta di Igort. L’aveva conosciuto ed era andato a bere con lui e Sampayo. “Ogni persona presente nel locale diventava un personaggio. La guardavano e immaginavano la sua vita.” Igort era sbalordito dalla loro capacità di completare una descrizione intima, articolata e impietosa attraverso fisionomia, postura, abbigliamento e quel poco d’altro che avevano a disposizione di quegli sconosciuti al bar. Potevano esercitare il loro stile narrativo in qualsiasi momento, come una pistola puntata alla testa di chiunque. Muñoz e Sampayo non smettevano per un attimo i panni di fustigatori; la loro satira impietosa delle debolezze umane non si arrestava davanti a nulla, non esistevano età o condizione sociale abilitate a fornire esenzioni accettabili ai loro occhi. I fumetti erano la parte visibile, ma quei due non la smettevano un momento, macchine inarrestabili in un processo di vivisezione del peggio che appartiene a ognuno di noi. Dalla descrizione sembrava anche che soffrissero, che dietro il sarcasmo si nascondesse un male profondo, quello della consapevolezza di condividere l’umana bruttezza, di non esserne giudici distaccati. Erano eroici, shakespeariani… argentini!

Non era un luogo comune pensare che in quelle immagini ci fosse un odore acre che sapeva di tango: un misto di sudore rappreso in cui si cristallizzavano ormoni di desideri frustrati, malinconie, musiche che prolungavano le loro melodie in maniera lancinante per poi rigirarsi con improvvisi colpi di coda, straziando chi si azzardava a ballarle. E l’ambiguità dei corpi che popolavano le vignette. C’era Gardel con tutte le sue contraddizioni e il fascino tragico della sua epica (ben prima che Muñoz lo ritraesse in una storia) e Piazzolla perché si sentiva la stessa voglia inarrestabile di cambiare cose che venivano comunemente ritenute immutabili (come il tango prima di Piazzolla, appunto, e in questo caso l’integrità delle figure disegnate).

Guardare le pagine dava la vertigine. E degli strumenti con cui Muñoz disegnava, ancora nessuna traccia. Intanto ci si accaniva nelle prove: si sciancavano pennini, si sfregiavano fogli su fogli alla ricerca di quel segno perfetto che riproduceva l’intima bassezza di ogni essere umano (e la bellezza della sua sofferenza). Ma niente.

Un effetto però quella ricerca lo stava ottenendo, facendo emergere in un vasto gruppo di autori uno stile di cui Muñoz poteva essere considerato la “guida spirituale”. Era uno stile che allargava la sua influenza: Mattotti, Igort, Carpinteri, Iosa Ghini e tanti altri che avrebbero pubblicato sulle riviste di allora, Linus, Alter, Frigidaire… ognuno di loro aveva un po’ di Muñoz nel suo disegno. Perché con il suo segreto apparentemente tecnico Muñoz aveva stimolato in loro il recupero del fremito originario del segno, costringendoli a sintonizzarsi con la propria sensibilità, con l’impulso profondo del loro desiderio di esprimersi attraverso il fumetto.

Nessuno sarebbe diventato un autore che ricordava Muñoz, ma ognuno di loro gli deve essere grato per un esempio che gli ha consentito di scoprire il mistero (personale e irripetibile) di una tecnica che non può essere replicata e che racconta le proprie storie secondo una sintassi che appartiene a quell’autore e a nessun altro. Il segno nel fumetto non è lessico, e il fumetto è un linguaggio con regole non completamente scritte, non completamente visibili. Ci si inoltra così sulle piste di un autore per poi deviarne e aprirne di proprie quando quelle scompaiono nel fitto di un territorio che è solo suo.

Muñoz, come pochi altri, ha aperto una pista che per molti autori ha rappresentato l’inizio di un percorso.

venerdì 25 febbraio 2011

TRE VIAGGI DEL PAZ

Terzo: in cui sofferenza e incoscienza vivono in splendida armonia


È la tarda primavera del 1985 e un’allora sconosciuta azienda che fa orologi invita a Basilea una serie di autori a un happening di pittura per lanciare il loro nuovo modello in plastica trasparente. La ditta si chiama Swatch.

Andrea non è stato chiamato, ma tutti i suoi amici di Bologna sì. Forse perché lui è più istintivo e meno designer di loro. O forse perché non pagavano abbastanza. Per Andrea “prima pagare” non era una battuta.

Tu sei lì che, sudando, dipingi su un telo di cinque metri per tre che sovrasta una piccola piazza. Sei infilato dentro una tuta di carta bianca e un aereo che sorvola ad alta quota disturba Soon over Babaluna dei Can nel walkman.

Arriva alle tue spalle la giornalista di una rivista di moda milanese che una volta ti ha intervistato. “Ti ricordi di me?” dice. È lì per fare un servizio sul lancio dello Swatch trasparente (sarebbe uscito in commercio il mese dopo, dando inizio alla mania collezionistica degli orologi “customizzati”…).

“Certo che mi ricordo.” Ti siedi sull’impalcatura. C’è uno sguardo d’intesa che ti mette a disagio. Mentre parlate ti chiedi se ne avresti voglia. Sei un po’ timido e un po’ snob. E le ragazze con le tette grosse ti mettono sempre in imbarazzo. Ma sembra simpatica. Concludi che ci penserai domani. Forse.

Mentre il sole cala, quelli che dipingono si danno appuntamento per la cena. Ed ecco apparire Andrea, vestito troppo leggero per il clima svizzero. “Ragazzi, ho pensato che a Bologna mi annoiavo, e che vi sarei mancato.”

Si mette d’accordo per dormire sfruttando il letto inutilizzato nella camera doppia di quello tra i presenti che lui considera il suo amico del cuore. Un fumettista conosciuto principalmente come artista visivo.

La fidanzata lo ha appena lasciato e lui ha bisogno di stare in compagnia. Anche il suo tono di voce è più alto del solito, come se volesse sentirsi mentre fa le sue battute. A Bologna si sentiva senza un pubblico, abbandonato e solo.

L’appuntamento dopo cena è in un locale di tendenza, festa offerta da Swatch. Gli italiani si riuniscono e un lampo a metà tra pietà e la curiosità antropologica ti attraversa la mente: presenti la giornalista milanese all’inconsolabile Andrea. A varie riprese, durante la serata, ha chiesto all’amico del cuore, che conosce molto bene la sua ex fidanzata, se anche lui pensa che tra loro sia tutto finito. Con lo sguardo supplicante, come se l’altro avesse il potere risolutivo di farla tornare da lui. Secondo te cosa le ho fatto? Ma pensi che non mi voglia più vedere? Tornerà da me? Ha un altro?

L’amico dà risposte evasive, periferiche, sibilline… sempre più sfumate, lontane da qualsiasi senso compiuto, cercando di sottrarsi all’interrogatorio. Il dialogo diventa allusivo, fantastico, assurdo, come se quei due stessero parlando di qualcos’altro, di cui sanno tutto ma di cui non riescono a dirsi nulla. “Sarà con qualcuno adesso?”

“No, non ti preoccupare.”

“Ma tu come fai a dirlo?”

“Lo sai che io queste cose le intuisco.”

“Hai il sesto senso. Sei un artista.”

“Ehm…”

“Grazie. Grazie. Se non ci fossi tu… È bella, vero?” scuote la testa. “È bellissima.”

“Eh sì.”

“Lo pensi anche tu?”

“Sì, certamente.”

“Non può lasciarmi. Non riuscirei ad amare un’altra donna. Tu mi capisci, vero?”

“Ti capisco.”

“A volte mi chiedo come fai a capirmi così bene. Noi ci capiamo al volo.”

“Capita.”

“Non ho mai avuto un amico come te.”

“Dài.”

“È vero.”

Il locale è diviso in due ambienti. Una parte è infossata come una cava di marmo. Laggiù tutti ballano. L’impianto di condizionamento è insufficiente ad ammortizzare il calore umido che sale dai corpi sudati.

Andrea è già di sotto e balla, balla, balla… come un forsennato. Con addosso la sua solita canottiera e i jeans. Come in un suo disegno. Con la testa e le braccia che sembrano svitarsi dal corpo. Grondante di sudore. Con gli occhi che bucano le pareti, la roccia, le stelle… e proseguono persi altrove.

Gli altri a un certo punto se ne vanno e lui resta. L’amico del cuore lo saluta con un gesto malinconico ma lui non lo vede. Gli dice di bussare quando rientrerà, ma Andrea non sente.

Tu lo osservi. Ti chiedi che cos’abbia e nutri dei sospetti su cosa condividano quei due. Ti pare che lui ora trasudi rabbia bella e buona. Ma hai sonno e te ne vai.

Al mattino si scopre che Andrea non è andato a dormire. E solo più tardi, quando passa a salutare, il bullo borghesuccio che è in lui ha bisogno di far sapere a tutti che ha passato la notte con la giornalista milanese.

Eh sì, Andrea era un vero uomo.

E, in quanto tale, onnivoro.

giovedì 24 febbraio 2011

TRE VIAGGI DEL PAZ

Secondo: dove si scopre che aveva più di una mania ed era un po’ petulante

Andrea era uno che quando attaccava a parlare non la smetteva più. Ed era così entusiasta che ti sembrava brutto mandarlo a quel paese.

Scena: aeroporto di Bologna, dicembre 1984, pronti all’imbarco per il viaggio di presentazione di un libro collettivo a Parigi, al Bains Douche. Andrea è con la sua fidanzata, gli altri da soli.

Ti guarda mentre saluti la tua prima del check in e dice: “È la tua ragazza?”

“Sì.”

“State insieme da molto?”

“Sì…”

“Ah, carina. Molto carina. Mi piace.”

“Anche a me.”

“È di Bologna?”

“No…”

“Andrea, ma la vuoi smettere?” la sua fidanzata lo strattona leggermente per un gomito. “Lascialo in pace! Perché ti devi fare sempre gli affari degli altri?”

Al momento dell’imbarco nota il tuo nervosismo. Tu sudi, lui si avvicina. “C’è qualcosa che non va?”

“No, niente.”

“Hai paura di volare?”

“Più che altro è la prima volta. Avrei preferito andare in treno.”

Allora Andrea Zazà Pazienza alza la voce indicandoti in mezzo al gate con l’indice della mano destra che ti pende sulla testa come un punto esclamativo: “Ragazzi, lo sapete che è la prima volta che sale su un aereo?”

“Sì.” Ma adesso lo sanno anche tutti i passeggeri, forse anche l’equipaggio che sta sfilando con i trolley.

Al decollo stai con gli occhi chiusi, le mani in grembo. Hai il posto vicino al finestrino, lui è due sedili più in là. Continui a sudare. Lui si agita, viene a vedere. “Ma com’è che non guardi fuori?” Si sporge verso l’oblò come se volesse infilarci dentro la testa.

Il tuo stomaco si fa una passeggiata. “Soffro di vertigini. Molto.”

Ad Andrea si perdonava tutto, perché in fondo a se stesso era sempre un ingenuo ragazzino di San Severo di Puglia, viziato e dispettoso come solo un bambino del sud Italia sa esserlo.

All’atterraggio applaude e cerca l’appoggio comune. La sua fidanzata lo guarda come se avesse pestato una merda e lo prega di starsene calmo.

Il giorno a Parigi passa da un appuntamento all’altro, con editori e autori. Fino alla cena prima della presentazione del giorno seguente, in un ristorante svedese con Tanino Liberatore. Andrea e fidanzata sono sul tuo stesso taxi. Lui ha appena scoperto che hai fatto judo per anni e nel tuo curriculum c’è qualche gara vinta e anche un campionato. Ti sei esposto per non lasciarti travolgere dalla sua parlantina sciolta, per interromperlo sperando che la sorpresa gli impedisca di continuare a blaterare. Troppo poco e tema sbagliato. “Ma non ti ho mai detto che faccio kendo?” Argomento che per fortuna si esaurisce in fretta, nell’ingorgato traffico parigino. E non ti ricorderai mai come si sia arrivati al seguente. Forse ti ha chiesto come mai disegni così bene gli aerei della Seconda guerra mondiale nei tuoi fumetti (sottointendendo che per il resto sei un dilettante…). Tu, come un pollo, gli hai rivelato che sei un modellista e che collezioni soprattutto riproduzioni di aerei delle forze dell’Asse e della RAF. “Anch’io sono appassionato di aerei della Seconda guerra mondiale!” esplode Andrea con un sorriso. E, cercando di dimostrare la sua supremazia, comincia a parlare delle forze aeree americane, porta il discorso là dove crede di saperne più di te. Comincia con i caccia: il Curtiss P-36, il Grumman F4F Wildcat, il Bell P-39Q Aircobra, il Lockheed P-38 Lightning, il Voughy F4U Corsair e il North American P-51 Mustang. Ma vede che non riesce ad acquisire alcuna supremazia, viene ribattuto colpo su colpo con alcune precisazioni che lo fanno sembrare un neofita. Allora passa ai sovietici, ma quando capisce da una battuta insinuante sul Polikarpov che si troverebbe di nuovo a mal partito, zittisce. Per riemergere all’improvviso dal suo silenzio: “Sei appassionato anche di armi?”

La fidanzata gli rifila l’ennesima gomitata nel fianco: “Ma lo vuoi lasciare in pace?!”

Ad Andrea piaceva prevalere, anche se solo a parole.

Di ritorno dalla tre giorni parigina l’aereo è costretto ad atterrare a Pisa causa nebbia. Sul pullman che vi porta a Bologna, mentre stai leggendo e gli altri sonnecchiano, Andrea viene a sedersi vicino a te. Anche se hai in mano Ultima fermata a Brooklyn, parlate un po’ di fantascienza e di Philip K. Dick, poi lo vedi con gli occhi acquosi e cogli la sua espressione sofferente. Lui si accorge che gli stai guardando dentro. Ingoia un Maalox. “Ho mal di stomaco.”

Poi sente di non averti detto tutto e di dovertelo spiegare. Tu sorridi e fai finta di non aver sentito il resto.

Andrea era sincero fino all’autolesionismo.

mercoledì 16 febbraio 2011

TRE VIAGGI DEL PAZ


Primo: dove si scopre che a lui tutto era perdonato, nulla rifiutato

Andrea era uno che non aveva bisogno di prendere appuntamenti.

La redazione di Linus all’alba degli anni Ottanta era in un condominio con le piastrelle lucide, in un cortile davanti al palazzo Rizzoli dell’omonima via. Allora l’editore si chiamava ancora Milano Libri, ma era già stato assorbito dal grande gruppo editoriale. Per arrivarci si prendeva la metropolitana verde, direttamente in Stazione Centrale, direzione Cologno-Gessate, fermata Crescenzago. Si trattava di una meta cruciale per ogni autore di fumetti.

Il direttore era (ma ancora per poco, perché se ne sarebbe andato sbattendo la porta per protesta contro gli uomini della loggia P2 che avevano colonizzato Rizzoli) Oreste del Buono. Quando era in sede, se ne rimaneva chiuso nel suo studio e faceva rare sortite nell’open space della redazione.

Redazione composta esclusivamente da donne.

Andrea era il tipo del mascalzone latino. Uno che con le donne sapeva farci. A differenza dell’autore medio di fumetti.

All’autore di fumetti, specie se giovane, sudavano le mani per l’emozione all’idea di poter incontrare Oreste del Buono (che di lì a poco sarebbe stato tra i fondatori de L’Eternauta, un altro pezzo di storia delle riviste a fumetti, e avrebbe dato il suo contributo di idee, ma si favoleggia anche economico, alla nascita di Frigidaire…). E quando incontrava le ragazze della redazione, all’autorucolo venivano i crampi a causa dei sali minerali persi. Erano ragazze capitanate dall’art director caporedattore Fulvia Serra, destinata dopo l’abbandono di OdB ad assumere il ruolo direttoriale. Il giovane autore arrivando in redazione si ritrovava al centro dell’open space, in cui le scrivanie delle ragazze si fronteggiavano, e lì iniziava una specie di esame di stato, in cui donne che avevano tutto quello che un ragazzo timido teme nell’altro sesso, lo vivisezionavano: loro erano per la maggior parte carine; erano colte; erano argute; erano sarcastiche e non vedevano l’ora di esercitare i loro poteri sui malcapitati. L’immagine del gatto che si trastulla con il topolino tramortito scuotendolo e rollandoselo con le zampe, con la variante di un morso d’assaggio di tanto in tanto sarà anche abusata, ma in questo caso è esatta. Il giovane autore poteva anche essere un collaboratore acquisito, ma si sentiva continuamente messo in discussione. Sballottato tra battute e sguardi dubitativi, estraeva la cartella con le sue tavole a china, mostrava il tutto e rimaneva in pena di fronte alla pausa di silenzio. Arrivare da Bologna significava spesso essersi alzati al primo sole (d’inverno prima…), forse aver bevuto un caffè in fretta, essere saliti al volo in treno ed essersi risvegliati a destinazione con la bocca impastata e con lo stomaco che pulsava come un cuore aggiunto.

Le ragazze di redazione facevano diventare il suo imbarazzo, la sua scarsa brillantezza, il diversivo della tarda mattinata.

Andrea era uno che non era mai in difficoltà, perché aveva un bel sorriso, la erre dei seduttori e la battuta sempre pronta. Era anche un bel ragazzo. Anzi, per essere precisi non era proprio un bello, ma era di bella presenza, che è quello che conta. Poteva succedere che lui piombasse in redazione anche senza appuntamento, all’ora che gli pareva, e che le ragazze squittissero felici.

Come quella volta.

Andrea aveva una voce nasale, o forse adenoidale, un po’ da vecchio nobile decaduto (come Totò nella memorabile interpretazione del barone Ottone Spinelli degli Ulivi detto Zazà in Signori si nasce), e poteva chiedere qualsiasi cosa. Tu eri lì che stavi mostrando le tue tavole, lui ti salutava, salutava loro, e loro si dimenticavano di te.

Le teste si giravano verso di lui e sembrava che stesse per iniziare un balletto di Grease. “Ciao, come va?” Guardava i disegni del collega. “Belle queste tavole. Belle… è bravo questo ragazzo.” Ti segnalava declassandoti a un esordiente che mostrava i suoi primi lavori. Poi si disinteressava completamente di te come se fossi uno degli ombrelli dimenticati all’attaccapanni all’entrata, e passava allo show: “Ragazze, ce l’avete un tavolo per me che devo finire di disegnare una pagina?”

“Ti sgombero la mia scrivania!” era la risposta moltiplicata per il numero delle ragazze.

“Bene, prendo la tua… Ma prima avrei bisogno di un piccolo favore.”

“Sì…?”

“Posso farmi la doccia, magari un bagno… ho visto che tanto avete la vasca… c’è l’acqua calda?”

“Certo.”

“Perché sono arrivato proprio adesso da Bologna e ho dormito solo due ore. Stanotte ho lavorato per finire i disegni. Ma non ce l’ho fatta.”

“Vieni, ti do un asciugamano.”

“Ragazze, siete degli angeli.” Quindi baciava castamente le ragazze più vicine a lui, che arrossivano come liceali al primo incontro.

Nel frattempo il fumettista giaceva mogio, in compagnia del suo appuntamento, dimenticato nei pressi di una scrivania.

Quella volta Andrea entrò nel bagno, riempì la vasca fischiettando allegro. Le ragazze si guardarono l’un l’altra con sguardi birichini: non riuscivano a trattenere risolini d’emozione, si coprivano la bocca con la mano alla ricerca della fanciulla in fiore dimenticata ormai in loro. Andavano avanti e indietro davanti alla porta del bagno per chiedere ad Andrea se aveva bisogno di qualcosa.

Tutta la redazione era mobilitata, finché non arrivò la richiesta: “Ragazze, e quell’asciugamano che mi avevate promesso?”

La porta del bagno era socchiusa dall’interno. La richiesta arrivò da quello spiraglio malizioso. Quale delle donne avrebbe avuto il privilegio del brivido, avvicinandosi a quella fessura dal sapore proibito?

Ci fu una lunga pausa in cui si scambiarono sguardi che mescolavano paura, eccitazione, sfida, trepidazione… e infine invidia.

Nel frattempo l’autore attendeva ormai rassegnato in un angolo, sfogliando svogliato alcuni cartonati francesi impilati su una scrivania vuota.

Andrea era uno che non subiva le pause.

I tempi morti li dirottava sugli altri.

mercoledì 2 febbraio 2011

APOCALISSE CINQUE









Altri disegni dal progetto artistico "Apocalisse", realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm14x10 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana...