lunedì 23 maggio 2011

ESSI VIVONO


È l’unico zoo in cui gli animali pagano per stare in gabbia. L’utopia realizzata è il Salone del Libro di Torino, un luogo in cui il paradosso della cultura tenuta al guinzaglio si realizza con il consenso delle vittime. Solo i masochisti approvano le proprie umiliazioni. E gli editori godono di essere infilati al Lingotto, un posto che ha l’aspetto di un grande garage, dove il rumore di fondo è una sinfonia cacofonica che stordisce i visitatori nel giro di poche ore (la sua efficacia raggiunge l’apice con gli standisti costretti a rimanere dalle dieci del mattino alle dieci di sera per cinque giorni – e se non bastasse il venerdì e il sabato fino alle undici – pena una multa per inadempienza contrattuale). Il lunedì le scolaresche sciamano per le corsie trionfanti per aver schivato una giornata di scuola.

Il Salone del Libro di Torino è un lager in cui dalla Sala Rossa mandano a tutto volume, con casse audio poste all’esterno, un cabarettista locale mentre intrattiene liceali annoiati con battute stantie su Leonardo da Vinci. Un lager in cui per ironia della sorte il paese ospite è la Russia, con un padiglione che suscita rigurgiti bolscevichi per la sua bruttezza. Il direttore Ernesto Ferrero circola per le corsie piegato con un fascio di carte stretto sotto braccio e somiglia sempre di più a un Giulio Andreotti che ha abbandonato la politica (anche se cariche come le sue non sono esenti da un contesto politico, poteva evitarsi la reprimenda a Franco Cordero).

Sì, il Salone è un’istituzione inutile che dichiara non solo il crepuscolo della cultura in Italia e i soliti giochi di piccoli poteri destinati a ingrassare una casta (e non ci si chieda se di destra o di sinistra… ma quale “sinistra”?), perché la questione, se ci si occupa di fumetti, si rivela smaccata umiliazione. Il Salone del Libro di Torino deve delle scuse agli editori di fumetti per averli chiusi in un ghetto all’interno di un brutto zoo, per avergli inflitto la legge del lager. È paradossale che mentre tutti gli editori maggiori, medi o piccoli, snobbano il fumetto ma provano ad attrezzarsi con una loro collana di “graphic novel”, il Salone releghi chi ha interi cataloghi dedicati (e di qualità) in un recinto denominato “Comics Center”, confinato in un angolo chiuso da un’area dedicata alla musica in cui i visitatori provano tutto il tempo pianoforti e batterie e una piccola etichetta jazz mette a tutto volume a nastro continuo “Besame Mucho” (il tormento di “Besame Mucho” entra nella testa, accompagna gli standisti delle due aree all’uscita, penetra nei sogni e, in un loop inevitabile, sfuma al mattino sulle note che provengono nuovamente dallo stand dell’etichetta). La zona degli incontri del fumetto è sprofondata in una specie di angolo della vergogna a cui, giustamente, nessuno si azzarda ad avvicinarsi (tranne quando si insegna a disegnare Geronimo Stilton, che con i fumetti c’entra come Fabrizio Corona con il noir). Invisibilità a pagamento, neanche i visitatori che ti buttano le noccioline… anzi, l’unico posto dove puoi procurarti da mangiare e da bere è la catena Autogrill, che evidenzia quanto cibo e acqua siano preziosi nel mondo visto che una bottiglietta d’acqua costa un euro e trenta e per mangiare al self service bisogna accendere un mutuo in banca.

Dall’entrata del padiglione lo stendardo dell’Area Musica impalla esattamente quello del Comics Center, così da renderlo perfettamente invisibile. Del resto facendo una proporzione sulla metratura probabilmente gli stand fuori dall’area, in mezzo agli editori non discriminati, hanno un costo simile. Forse peggio del Comics Centre c’è solo l’“Incubatoio”, suq di stand minuscoli concentrati in un angolo nascosto, come se il Salone si vergognasse pure di loro, che sarebbero le realtà in crescita. Zona che uno dei malcapitati standisti ha battezzato appropriatamente l’“Inculatoio”. Ci sarebbe anche da dire dell’Oval, dove spiccano gli stand regionali, uno più brutto e inutile dell’altro, e quello dell’Emilia Romagna ha l’unico pregio di essere invisibile, e quindi discreto nel pressapochismo “fai da te” dell’allestimento. Bisogna avviare persino una ricerca per trovare dove hanno messo il nome…

La constatazione è che al Salone la differenza non piace, va resa inoffensiva, depressa, minimizzata. La gente si accalca ad ascoltare Moccia o Rampini o Nedved che con la cultura hanno poco a che fare (ma un Salone dedicato alla cultura non dovrebbe fare delle scelte culturali visto che sostiene di non farne di politiche?). I visitatori si aggirano come zombi in un supermercato per entrare a contatto con i libri delle solite case editrici (allo zombi piace lo sfavillio, l’odore della carne, il bagliore della memoria che gli ricorda colazioni da Tiffany che sopravvivono solo nella sua fantasia…). Eccoli tutti da Mondadori, Einaudi, Rizzoli, Bompiani, Guanda, Longanesi, Feltrinelli…

Un ragazzo arriva a uno stand di fumetti con una busta di Mondadori.

“Posso chiederti cos’hai lì dentro?”

Estrae vari Oscar Mondadori. Nella maggior parte dei casi classici.

“Ma scusa quelli li trovi in qualsiasi libreria italiana, come ti è venuto in mente di comperarli proprio qui?”

“Non so. Forse perché a casa non mi capita spesso di andare in libreria… Li ho visti, li ho comperati.”

Forse la soluzione giusta per lo stand era la sfera a specchi da discoteca. La musica c’era: “Besame, 
besame mucho 
como si fuera ésta noche 
la última vez…”

2 commenti:

  1. uh uh uh! bel post!!! io penso lo stesso della fiera di Bologna1

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  2. Un lager, sì. Ma anche un museo di cadaveri ricoperti di vernice colorata e profumata. Siamo dalle parti di un discount con i lustrini. Non ci sono mai stato e non ci andrò mai. Il post, comunque, è bello assai. Fa venire voglia di crearne uno, di Salone del Libro, ma solo per poi raderlo al suolo.

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