Un Batman con un’evidente
debolezza per l’alcol informa il commissario Gordon e l’amico Fredric Brown
(omonimo dello scrittore di noir e fantascienza) sui progressi con la lingua
francese di Dick Grayson, alias Robin, che è andato a studiare ad Andover,
fuori Gotham. Si dilungano con stupide battute in francese mentre incombe la
minaccia del Joker. Impreparato ad affrontare il nemico, Batman viene sconfitto
dal suo arcinemico che gli sfila la maschera svelando la sua identità segreta,
per Bruce Wayne è finita.
Non si tratta di un fumetto di
Batman ma di un racconto di Donald Barthelme, uno dei più importanti scrittori
postmoderni statunitensi, contenuto nella sua antologia del 1964 Come Back, Dr. Caligari, e ispirato al
numero 148 del 1962 di Batman da cui
riprende anche il titolo, “The Joker’s Greatest Triumph!”, ma non la fine, dove
un lampo di luce proveniente dal faro dell’aeroporto salva Batman dalla
rivelazione.
L’operazione di straniamento
consiste proprio nello spostare la narrazione dall’epica supereroistica al
contesto quotidiano, fino alle sue estreme conseguenze, come se la realtà
rappresentata nelle vignette appartenesse a un bizzarro mondo alternativo.
Un racconto per certi versi
cruciale per definire i percorsi intrecciati tra fumetto e letteratura, almeno
per quanto riguarda il comic book, e che anticipa e incontra, per certi versi,
l’operazione del così detto “revisionismo” supereroistico iniziato da Alan
Moore con Miracleman e portato avanti
con supereroi più o meno celebri, da Superman alla saga di Watchmen, dove l’idea è quella che tutto quanto appare attraverso
le vignette sia la documentazione parziale della vita in un universo, con
storia e regole che divergono dalle nostre, in cui gli eroi di carta sono
persone vere.
Michael Chabon, nel suo romanzo The Amazing Adventures of Kavalier &
Clay, premio Pulitzer 2001, ha ricostruito l’età dell’oro del fumetto di
supereroi, la così detta Golden Age, attraverso due personaggi fittizi ispirati
a Jerry Siegel e Joe Shuster, i creatori di Superman.
Per Chabon sembra esserci il mito, e non solo, del Golem all’origine di tutto,
partendo dalla tradizione mitteleuropea e da quella ebraica in particolare. Un
crossover tra realtà storiche e finzione, che infonde nel lettore la sensazione
di un mondo alternativo, ripreso subito, con modalità e invenzioni differenti,
anche da altri scrittori americani tra cui Jonathan Lethem con The Fortress of Solitude e Tom De Haven
con It’s Superman!
Nella finzione del romanzo di
Chabon il successo di Kavalier e Clay si deve soprattutto alla creazione del
personaggio dell’Escapista, supereroe impegnato nello sforzo bellico contro le
forze dell’Asse, ripreso in seguito in due miniserie in formato comic book, in
cui, insieme a quelle di autori di fumetti, appaiono storie dello stesso Chabon
e di un altro scrittore di punta statunitense, Glen David Gold.
Sono molti e di molteplici nature
i transiti da fumetto e letteratura (e viceversa) e riguardano autori,
personaggi, chiavi interpretative… Negli anni Trenta del secolo scorso Dashiell
Hammett si trovava a scrivere naturalmente le strisce dell’agente segreto X-9
disegnate da Alex Raymond così come alcuni autori di fantascienza tra cui
Edmond Hamilton, Otto Binder e Alfred Bester scrivevano storie di Superman,
Legion of Super-Heroes o Justice League… perché i lettori di riferimento (in
genere giovani) erano gli stessi della loro narrativa, ragazzini abituati a un
consumo di letteratura popolare, dove i generi e i temi frequentati dai pulp magazine
e dai fumetti spesso si sovrapponevano. E non è un caso che un prosecutore del
pulp come Joe Lansdale abbia affiancato alla scrittura dei suoi romanzi quella
di fumetti tra cui alcuni western-horror e in particolare una miniserie
dedicata al pistolero sfregiato Jonah Hex. Una tradizione costellata di
trasposizioni ma anche di “tie in”, ovvero innesti e ampliamenti dell’universo
narrativo con nuove storie a fumetti di personaggi già noti letterariamente dal
Tarzan di Edgar Rice Burroughs all’enigmatico The Shadow, fino a Nero Wolfe,
Maigret, Sherlock Holmes, James Bond… Casi spesso trasversali, personaggi
impegnati in diversi media, a partire dalla creazione letteraria, dalla
serialità radiofonica e televisiva fino al cinema.
Anche gli adattamenti a fumetti
hanno un percorso più o meno illustre. Negli anni in cui il fumetto è stato
visto come uno dei mezzi di intrattenimento privilegiati di un pubblico
giovanile, si sono moltiplicati i classici della letteratura riletti a fumetti
intesi come strumento didattico e ancora oggi i maggiori editori del fumetto
francese proseguono a produrre volumi tratti da classici per ragazzi tanto da
vantare ognuno di essi la sua versione di titoli di Dickens, Stevenson, Twain,
London… o delle fiabe di La Fontaine. Attività che in alcuni casi, grazie
all’incontro con un fumettista ispirato, dà vita a titoli che non sono
semplicemente al servizio dell’originale, ma che creano un’esperienza di
lettura del tutto autonoma come la pluripremiata versione di The Wind in the Willows di Kenneth
Grahame, realizzata da Michel Plessix.
Ma cosa rende questi adattamenti
memorabili? Certamente la non sudditanza rispetto all’opera originale,
l’incontro tra forti personalità, grandi autorialità in entrambi i versanti
creativi. Si tratta in definitiva della capacità di evitare, grazie allo stile
grafico e all’uso dello specifico del linguaggio fumettistico, ogni passività
verso l’originale. Esempi in questo senso ce ne sono molti anche nella storia
del fumetto italiano: Gianni De Luca si è confrontato con i testi del teatro
shakespeariano con due opere, Amleto
e il Romeo e Giulietta, che ancora
oggi sono un esempio esplorazione delle potenzialità diegetiche del linguaggio
del fumetto; Walter Molino e Rino Albertarelli hanno evidenziato la follia sanguinaria del ciclo
western di Emilio Salgari; Dino Battaglia ha rafforzato l’impalpabile atmosfera
di ambiguità dei classici dell’inquietudine, da Poe a Maupassant; Sergio Toppi
ha ricreato nel nero del suo tratteggio il mistero delle fiabe orientali;
Manara e Magnus hanno messo in scena la complessità di testi della tradizione
cinese con un occhio alla modernità mentre Guido Crepax ha scomposto i classici
dell’erotismo con il suo montaggio analitico… Queste opere si differenziano da
qualsiasi “riduzione” perché l’apporto del disegnatore non è una
semplificazione dell’opera originaria, ma, anzi, ne moltiplica l’immaginario,
rendendolo ancor più penetrante, perdurante. La bibliografia di Alberto Breccia
è un esempio di tecniche e approcci differenti, di una riflessione sul rapporto
tra fumetto e letteratura durata una vita e occasione di autentici capolavori.
La sua rilettura dei Chtulhu Mythos
di H.P. Lovecraft (ciclo narrativo tra i più adattati e ampliati diventato
ormai un tema nell’ambito delle interpretazioni a fumetti) è, di racconto in
racconto, un susseguirsi di tecniche e di sperimentazioni, dal collage
all’espressionismo astratto, nel tentativo di avvicinare il lettore alla
visione degli orrori indicibili descritti dal solitario di Providence. Il
maestro argentino dichiarò più volte la sua incapacità di sottrarsi al fascino
generato dalla lettura di un romanzo o di un racconto, alla necessità di
produrne una sua versione disegnata, a suo modo più sintetica, essenziale e
penetrante dell’originale (il che significava mantenere o addirittura
moltiplicare l’implicito e gli elementi di suggestione del racconto con
immagini capaci di latenza). È rilevante quanto riportato nel volume intervista
Ombres et lumières a proposito della
versione di Informe sobre los ciegos
di Ernesto Sabato: dopo avuto il via libera e aver prodotto la sceneggiatura,
Breccia la sottopose allo scrittore che, vedendo i suoi testi ridotti e alcune
scene soppresse, protestò ritirando l’autorizzazione finché non fossero stati
reintegrati interamente (salvo poi riflettere e ripensarci). Il trasferimento
di una storia da un linguaggio a un altro ne altera inevitabilmente la
struttura e questo è sempre stato il problema e il pregio degli adattamenti a
fumetti ben riusciti e anche il limite nel rapporto tra scrittori e fumettisti.
Testimonia della difficoltà di accettare le regole di quella che è stata
considerata per tanto tempo un’arte minore, un artigianato dall’uso veloce.
L’idea di graphic novel, ovvero
di romanzo grafico, definizione coniata da Will Eisner nel 1978, in occasione
del suo passaggio da autore seriale noto per il personaggio di Spirit, il
detective creduto morto, a quello di narratore di storie di quartiere e di
famiglie e sdoganata nel 1989 dal successo di Maus di Art Spiegelman, ha certamente affrancato il fumetto
d’autore dal sospetto di essere un’arte inferiore e quindi dalla diffidenza
degli scrittori. Uno degli adattamenti che hanno segnato la svolta in questo
passaggio è sicuramente quello di City of
Glass di Paul Auster, ridotto a fumetti da Paul Karasik alla sceneggiatura
e David Mazzucchelli ai disegni nel 1994, dove il quesito gnostico del romanzo
viene amplificato da un lavoro di sintesi grafica e narrativa in sottrazione.
Sono molti oggi gli scrittori che collaborano a diverso titolo con autori di
fumetti, da chi si limita a rendere disponibile le proprie opere fino ai casi
in cui viene prodotto un soggetto originale, rompendo un tabù che riguardava la
possibilità di considerare il fumetto una lettura adulta. In Italia Niccolò Ammaniti,
Giancarlo De Cataldo, Massimo Carlotto e Gianrico Carofiglio hanno contribuito
con storie originali diventate altrettanti graphic novel per editori maggiori,
non specializzati in fumetto.
Alla rivoluzione nella percezione
del fumetto popolare hanno contribuito in maniera determinante gli
sceneggiatori britannici, a cominciare dal già citato Alan Moore, il cui
contributo “adulto” a un genere destinato a un pubblico giovanile come le serie
supereroistiche ha dato coscienza ai lettori di trovarsi di fronte a una
rottura delle barriere tra cultura alta e cultura bassa. La complessità di
temi, di risvolti filosofici e di riferimenti all’attualità, oltre che la
ricerca di innovazione del linguaggio sin dal “decoupage”, in saghe come quelle
di Swamp Thing, la creatura della
palude, Watchmen, V for Vendetta o Prometea, per citare alcuni esempi
significativi, ha portato il fumetto seriale, e i suoi lettori, a sentirsi
orgogliosi della propria identità, rivendicando le potenzialità di una
narrazione che non è più archiviabile come solo intrattenimento. Moore ha
confermato poi le sue capacità letterarie scrivendo graphic novel tra cui From Hell, sulla Londra d’epoca
Vittoriana di Jack lo Squartatore, o un romanzo complesso ed esoterico come Voice of the Fire.
Un discorso analogo riguarda
l’altro sceneggiatore inglese protagonista di un intenso scambio tra i due
linguaggi: Neil Gaiman. Anche se gli inizi del suo contributo alla produzione
popolare ricalcano le orme di Moore, riprendendo in mano un vecchio personaggio
dimenticato come Sandman, opera una piccola rivoluzione. Sandman è il Signore
del Sogno, che Gaiman rende trasparente, adatto ad attraversare diverse
dimensioni della commedia umana. Sandman
di Gaiman è una vera e propria serie, sintonizzata sui gusti di un lettore che
ascolta musica “gothic” (o “dark”, a seconda dei punti di vista), e che
comincia a fare suo tutto ciò che gli corrisponde: da Shakespeare (che compare
oltre che con le sue opere anche in persona nel fumetto) al confronto con le
“faerie tales” fino alle versioni iconiche e non della Morte… Un apparente
prodotto di nicchia si è rivelato toccare così a fondo le origini leggendarie
dell’immaginario fantastico da ottenere un riscontro globale colpendo ogni tipo
di lettore. Senza più divisioni tra medium, Neil Gaiman è diventato uno degli
autori di riferimento della letteratura contemporanea che slitta tra lettori
adulti e adolescenti, in quel genere privo di demarcazioni raccolto sotto la
definizione insufficiente di “young adults”.
Fumetto e letteratura non
smettono quindi di interagire, di “rubarsi” storie e autori a vicenda, ma
quanto in passato poteva essere archiviato in un ambito destinato a un pubblico
ghettizzato e considerato intellettualmente minoritario oggi è entrato
definitivamente in una fase adulta.