lunedì 30 maggio 2011

PETER BICHSEL: ASPETTARE E BASTA


Lei ha scritto che Sherwood Anderson è il grande poeta della noia della provincia. Si può dire lo stesso anche di lei?

Suppongo di sì. Sherwood Anderson è il padre della letteratura americana moderna, anche di Hemingway che probabilmente è stato, dal punto di vista della costruzione del racconto, il suo migliore allievo, Queste short stories che finiscono senza colpi di scena, persino nel caso di racconti avvincenti, come “The killers” di Hemingway, ci si accorge solo alla fine che è un racconto della noia. Raccontare è avere a che fare con il tempo, e il tempo è anche la sua durata, in tedesco è bellissimo, la noia si chiama Lange Weile, il momento lungo, in svizzero tedesco si dice addirittura il tempo lungo e significa anche nostalgia. Senza noia non c’è nostalgia e scrivere ha a che fare con la nostalgia. Probabilmente Sherwood Anderson c’è stato sempre, Omero del resto era uno Sherwood Anderson.

La sua ultima raccolta uscita in italiano s’intitola Quando sapevamo aspettare. Dietro questa frase c’è molta nostalgia del passato. Cosa rimpiange di ciò che non è più?

Questa faccenda di ciò che oggi non è più, è una vecchia storia. In realtà era così già duemila anni fa. Questa storia della nostalgia non riguarda solo il Diciannovesimo secolo o il Ventesimo, riguarda la storia di tutta l’umanità. L’idea che la vita che abbiamo potrebbe essere diversa, anche l’utopia politica che ci fa sperare in un mondo migliore, più decente più umano può facilmente diventare l’idea che un tempo un mondo così ci fosse davvero, Dio ha creato un mondo meraviglioso e noi l’abbiamo rovinato: per quanto questa idea mi piaccia, so che non corrisponde al vero.

Lei dice che non esistono più le comunità perché sono venuti a mancare i rituali, quella di oggi è dunque una comunità senza identità?

Prendiamo la Svizzera. Un paese molto fiero della sua cultura quadrilinguistica. In realtà non ha mai avuto una cultura multilinguistica, le quattro lingue non hanno mai davvero convissuto, al contrario, le diverse culture sono sempre state lì, l’una accanto all’altra, ben separate tra loro. Non siamo l’esempio di una cultura comune tra le lingue; siamo invece l’orribile esempio di una cultura smembrata. L’identità della Svizzera: cos’è rimasto? Forse una nostra identità è l’esercito, che alla fine serve solo per questo, se avessimo un’dentità culturale non ci servirebbe l’esercito. E l’altra identità è la prosperità. Ci sono paesi poveri che pur essendo poveri conservano un’identità, il Portogallo mi sembra che ce l’abbia un’identità. Una Svizzera povera – e una Svizzera povera non è del tutto improbabile – non credo che esisterebbe più, perché mancherebbe la sua forma sostanziale di identità: la ricchezza. E a proposito della società svizzera, se penso a Soletta, il mio paese, quand’ero giovane, circa quarant’anni fa la società solettese mi sembrava unita c’erano i grandi ristoranti, dietro sedevano i ricchi a metà la media borghesia e davanti gli ubriaconi, e la sera tardi le diverse parti si mescolavano. Oggi questi posti non ci sono più, non ci sono più le osterie e quelle che rimangono la sera non sono più piene zeppe. Nel frattempo è sorta la società dei party, la società dei barbecue: dieci, quindici, venti persone che per tutta la vita si incontrano davanti a quella stupida griglia dove arrostisono carne fino a disintegrarla. Le persone oggi vivono tutte nei ghetti. Ghetti dei ricchi, dei mezzi ricchi, dei mezzi poveri, dei poveri, siamo diventati una società ghettizzata e questo ormai non si può più cambiare.

Nel suo libro l’unico accenno indiretto al mare è legato alla barca a vela e al periodo in cui Alinghi di Bertarelli vinceva la Coppa America. Lì lei si chiede, la Svizzera nazione di velisti? Scusate ma da questa nazione io mi ritiro.

Insomma orologi, cioccolata e un eroe che tirava alle mele, per dirla con Max Frisch: è questa la Svizzera di Peter Bichsel?

Sa, credo che tutta questa storia della cioccolata, degli orologi, delle mucche e della libertà, non sia più da tempo l’immagine che hanno gli stranieri della Svizzera, ma purtroppo è l’immagine che abbiamo noi. Ho l’impressione che gli svizzeri non si siano mai fatti un’idea precisa del loro paese, se la sono sempre lasciata fornire dagli stranieri, e nel momento in cui gli stranieri non sono stati più così entusiasti della Svizzera, allora gli svizzeri sono tornati alla cioccolata e agli orologi. Quando Frisch fu additato dalla borghesia come “nemico numero uno dello Stato” il problema era proprio quello: Frisch si era fatto un’idea di questao Stato. E questo non va. Di cio che è grande non devi farti immagine alcuna, è così che dice la Bibbia, no?

Le stazioni, i treni sono luoghi dell’attesa ma anche luoghi di fuga. Lei è una persona molto concreta, ma anche sognatrice e visionaria, cosa pensa della morte?

Eh sì, l’ha presa larga, ma è giusto così. Cominciamo dalle stazioni, i primi italiani che venivano in Svizzera a lavorare dopo la guerra, il sabato e la domenica stavano alla stazione, stavano tutti alla stazione perché è il posto dove chiunque può sentirsi parte di un tutto: stranieri o non stranieri, si fa parte di un insieme. Io sto molto volentieri da solo ma non ho la minima tendenza a isolarmi, sto volentieri da solo tra la gente, tra molta gente e questo per me è la stazione. E poi c’è l’attesa, aspettare è qualcosa di meraviglioso, essere in attesa, una donna incinta aspetta un bambino, aspettare qualcosa, di nuovo la nostalgia, o aspettare e basta. Come il mio amico mortalmente malato che aspettava, non la morte, aspettava e basta. Far parte di un tutto significa: la mia morte per me è qualcosa di certo, è sicuro che morirò e la questione è solo quando.

Mi attengo a Cartesio che ha detto: tutti quanti devono morire, forse anch’io.

Ha scritto di aver letto molto soprattutto per il piacere della lingua. Perché allora ha scelto di scrivere in tedesco e non nel suo amato dialetto?

In primo luogo c’è un errore. Da bambino io non leggevo per via della bellezza della lingua ma per via delle lettere dell’alfabeto. Amavo le lettere, amavo questa cosa meravigliosa per cui con sole sei lettere si può avere un albero, un albero bellissimo, l’albero per eccellenza. Ora c’è il computer, prima c’era la macchina per scrivere, io non posso scrivere a mano, perché se scrivo a mano non vedo quante sono le lettere che ho a disposizione, sono le lettere, solo le lettere, che mi attraggono. Un tempo ero dipendente dalla lettura e potevo leggere qualunque cosa, persino cose che non capivo. Poi c’è il fatto di scrivere in tedesco e non in dialetto. Abbiamo un dialetto che vive senza le lettere dell’alfabeto e abbiamo la lingua ufficiale scritta che vive con le lettere dell’alfabeto. Uno svizzero tedesco quando parla il tedesco, anche se lo fa per professione, anche se è un attore, avrà sempre le lettere dell’alfabeto che scorrono davanti agli occhi. Inoltre si può scrivere soltanto in una lingua artificiale, in qualunque lingua si scriva, anche un dialetto, anche l’italiano, bisogna prima stabilire dei parametri, inventarsi un piano stilistico.

Per noi svizzeri tedeschi, rispetto al tedesco, la questione è molto semplice, siamo in una posizione ideale. Intanto il piano stilistico c’è già, l’elevatissima lingua tedesca, in secondo luogo c’è la questione dell’estraniazione, ne ha parlato anche Brecht, prima ancora di cominciare a scriverlo, per noi il tedesco risulta straniante: una lingua che non è straniera ma è lievemente estranea. Il tedesco ufficiale ci appare come un dialetto che non conosciamo bene.

Infine le chiederei perché ha scelto di scrivere, ma mi sembra quasi pleonastico…

Perché si scrive? Tutti pensano che sia una domanda stupida. Non è stupida affatto, è una domanda molto intelligente, ma è semplicemente una domanda a cui non si può rispondere. Forse tutto quello che si scrive non è nient’atro che un tentativo inutilizzabile di rispondere a questa domanda.


Intervista a Peter Bichsel di Giorgio Thoeni, RSI, 7 maggio 2011 (traduzione Anna Ruchat)

mercoledì 25 maggio 2011

APOCALISSE SETTE










Altri disegni dal progetto artistico "Apocalisse", realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm14x10 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana...

lunedì 23 maggio 2011

ESSI VIVONO


È l’unico zoo in cui gli animali pagano per stare in gabbia. L’utopia realizzata è il Salone del Libro di Torino, un luogo in cui il paradosso della cultura tenuta al guinzaglio si realizza con il consenso delle vittime. Solo i masochisti approvano le proprie umiliazioni. E gli editori godono di essere infilati al Lingotto, un posto che ha l’aspetto di un grande garage, dove il rumore di fondo è una sinfonia cacofonica che stordisce i visitatori nel giro di poche ore (la sua efficacia raggiunge l’apice con gli standisti costretti a rimanere dalle dieci del mattino alle dieci di sera per cinque giorni – e se non bastasse il venerdì e il sabato fino alle undici – pena una multa per inadempienza contrattuale). Il lunedì le scolaresche sciamano per le corsie trionfanti per aver schivato una giornata di scuola.

Il Salone del Libro di Torino è un lager in cui dalla Sala Rossa mandano a tutto volume, con casse audio poste all’esterno, un cabarettista locale mentre intrattiene liceali annoiati con battute stantie su Leonardo da Vinci. Un lager in cui per ironia della sorte il paese ospite è la Russia, con un padiglione che suscita rigurgiti bolscevichi per la sua bruttezza. Il direttore Ernesto Ferrero circola per le corsie piegato con un fascio di carte stretto sotto braccio e somiglia sempre di più a un Giulio Andreotti che ha abbandonato la politica (anche se cariche come le sue non sono esenti da un contesto politico, poteva evitarsi la reprimenda a Franco Cordero).

Sì, il Salone è un’istituzione inutile che dichiara non solo il crepuscolo della cultura in Italia e i soliti giochi di piccoli poteri destinati a ingrassare una casta (e non ci si chieda se di destra o di sinistra… ma quale “sinistra”?), perché la questione, se ci si occupa di fumetti, si rivela smaccata umiliazione. Il Salone del Libro di Torino deve delle scuse agli editori di fumetti per averli chiusi in un ghetto all’interno di un brutto zoo, per avergli inflitto la legge del lager. È paradossale che mentre tutti gli editori maggiori, medi o piccoli, snobbano il fumetto ma provano ad attrezzarsi con una loro collana di “graphic novel”, il Salone releghi chi ha interi cataloghi dedicati (e di qualità) in un recinto denominato “Comics Center”, confinato in un angolo chiuso da un’area dedicata alla musica in cui i visitatori provano tutto il tempo pianoforti e batterie e una piccola etichetta jazz mette a tutto volume a nastro continuo “Besame Mucho” (il tormento di “Besame Mucho” entra nella testa, accompagna gli standisti delle due aree all’uscita, penetra nei sogni e, in un loop inevitabile, sfuma al mattino sulle note che provengono nuovamente dallo stand dell’etichetta). La zona degli incontri del fumetto è sprofondata in una specie di angolo della vergogna a cui, giustamente, nessuno si azzarda ad avvicinarsi (tranne quando si insegna a disegnare Geronimo Stilton, che con i fumetti c’entra come Fabrizio Corona con il noir). Invisibilità a pagamento, neanche i visitatori che ti buttano le noccioline… anzi, l’unico posto dove puoi procurarti da mangiare e da bere è la catena Autogrill, che evidenzia quanto cibo e acqua siano preziosi nel mondo visto che una bottiglietta d’acqua costa un euro e trenta e per mangiare al self service bisogna accendere un mutuo in banca.

Dall’entrata del padiglione lo stendardo dell’Area Musica impalla esattamente quello del Comics Center, così da renderlo perfettamente invisibile. Del resto facendo una proporzione sulla metratura probabilmente gli stand fuori dall’area, in mezzo agli editori non discriminati, hanno un costo simile. Forse peggio del Comics Centre c’è solo l’“Incubatoio”, suq di stand minuscoli concentrati in un angolo nascosto, come se il Salone si vergognasse pure di loro, che sarebbero le realtà in crescita. Zona che uno dei malcapitati standisti ha battezzato appropriatamente l’“Inculatoio”. Ci sarebbe anche da dire dell’Oval, dove spiccano gli stand regionali, uno più brutto e inutile dell’altro, e quello dell’Emilia Romagna ha l’unico pregio di essere invisibile, e quindi discreto nel pressapochismo “fai da te” dell’allestimento. Bisogna avviare persino una ricerca per trovare dove hanno messo il nome…

La constatazione è che al Salone la differenza non piace, va resa inoffensiva, depressa, minimizzata. La gente si accalca ad ascoltare Moccia o Rampini o Nedved che con la cultura hanno poco a che fare (ma un Salone dedicato alla cultura non dovrebbe fare delle scelte culturali visto che sostiene di non farne di politiche?). I visitatori si aggirano come zombi in un supermercato per entrare a contatto con i libri delle solite case editrici (allo zombi piace lo sfavillio, l’odore della carne, il bagliore della memoria che gli ricorda colazioni da Tiffany che sopravvivono solo nella sua fantasia…). Eccoli tutti da Mondadori, Einaudi, Rizzoli, Bompiani, Guanda, Longanesi, Feltrinelli…

Un ragazzo arriva a uno stand di fumetti con una busta di Mondadori.

“Posso chiederti cos’hai lì dentro?”

Estrae vari Oscar Mondadori. Nella maggior parte dei casi classici.

“Ma scusa quelli li trovi in qualsiasi libreria italiana, come ti è venuto in mente di comperarli proprio qui?”

“Non so. Forse perché a casa non mi capita spesso di andare in libreria… Li ho visti, li ho comperati.”

Forse la soluzione giusta per lo stand era la sfera a specchi da discoteca. La musica c’era: “Besame, 
besame mucho 
como si fuera ésta noche 
la última vez…”