venerdì 31 dicembre 2010

APOCALISSE QUATTRO











Altri disegni dal progetto artistico "Apocalisse", realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm14x10 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana...

mercoledì 29 dicembre 2010

CHICAGO BLUE


Ma è proprio inevitabile che osservando il buio ne emergano figure provenienti dal passato? Questo è il buio di un altro paese, sono le tenebre di Chicago che gravano sul lago Michigan, allora cosa ci fanno tutti questi fantasmi di gente che sostiene di essere ancora viva? Perché non le coste brillanti, frastagliate e sbriciolate della Groenlandia vista dal cockpit dell’aereo? Bianche e pure, un biancore che non sa di spettri, di ombre viventi, ma di infinito. L’aereo sembra immobile e il mondo gli gira sotto, un’attrazione del luna park. “Stiamo volando più bassi a causa di un problema di pressurizzazione e il cielo così terso capita di rado.” Il mare sbocconcella lastre di ghiaccio e le sparpaglia nella sua vastità. La Groenlandia si allontana. E tornano le apparizioni. In particolare, stampato nella pioggia fredda e scura, un volto che il lutto non ha ancora trascinato via. Ha le labbra esangui come si addice a un’apparizione. Si muovono, dice qualcosa, ma chi ha più voglia di stare ad ascoltare le sue bugie?

“Scendi le scalette, c’è un sottopassaggio che porta direttamente al lungo lago.” All’una di notte la Groenlandia si lascia sopraffare dallo spettro, e si mescola all'elenco dei desideri: colazione a base di pancake, un barattolo di burro di arachidi crunchy da Whole Foods, camminare tra i grattacieli fino a consumare le cartilagini delle ginocchia, vedere la "Grande Jatte", "Nighthawks" e "American Gothic" all’Art Institute… il cuore salta in gola all’idea di trovarli insieme, come quella volta della "Madonna del Prato" di Raffaello al Kunsthistorisches Museum di Vienna, con le lacrime agli occhi nell’assistere a tanta luce e tanto colore raccolti nello spazio di un quadro, qualcosa che la natura non sarebbe mai stata capace di fare. La pioggia penetra gelata nelle maglie del berretto di lana. Al ristorante giapponese una chiamata, numero sconosciuto; una voce femminile chiede timidamente se nome e cognome corrispondono. “Sì, sono io. Sono a Chicago.” “Ah, è per la carta di credito, autorizziamo la spesa?” “Certo. Chiamate per importi del genere?” “Una verifica, non si sa mai. È al di fuori dalla sua solita area di utilizzo…”

Perché continuare a tornare indietro con i pensieri? Cosa c’è che non va in questa camminata solitaria? Nel cielo corrono nubi che sfumano il nero. Ontario Street è deserta, le scalette e il sottopasso illuminato da luci al neon. Il rumore dei passi e sopra il traffico notturno sulla Lake Shore Drive, con le macchine che sciabordano mentre il lago se ne sta calmo. Una figura incappucciata dalla parte opposta. Uno studente in hood con la tracolla. Scuote la pioggia da un ciuffo di capelli che esce dal cappuccio. Cosa si fa in questi casi, bisogna salutare? Questa volta no: lui prosegue guardando davanti a sé.

Non è il momento giusto per fare jogging sul lungo lago. Il parco è spazzato da folate di una pioggia che ora diventa sottile come nebbia. Appare improvvisa la statua di bronzo di un uomo seduto su una sedia di bronzo. Il lago assorbe qualsiasi pensiero, un finto mare che si estende all’infinito, risucchia le tenebre e le rende quiete. Annega i fantasmi nell’eccitazione di un enorme e silenzioso spettacolo privato.

Autobus e taxi sono cetacei addormentati vicino al Navy Pier, all’ingresso del Childen’s Museum. L’obiettivo è arrivare fino all’estremo limite al Shakespeare Theater. Le luci delle giostre e della grande ruota splendono di luce cristallina in lugubre attesa di tutti coloro che stasera non verranno. Un appuntamento disatteso è il preludio dell’abbandono, per luoghi e persone.

Cosa farebbe Lot in una situazione simile? Arrivato alla fine del molo si getterebbe in acqua. Invece dietro le spalle si rivela il profilo ingioiellato di Chicago: geometria solida di luci che si arrampicano fino alle vette della Sears Tower, riflessi d’oro e argento, e poi di giallo vivo e ocra di luci smorzate, il blu e il rosso. Il bianco delle finestre degli uffici percorsi dal turno di pulizie, le ghirlande del traffico…

Il ritorno sul lato opposto, dove i traghetti dormono ormeggiati in fila lungo il molo e le biciclette in affitto li imitano sotto le tettoie. L’odore di grasso animale esce dalla porta di un ristorante mentre un inserviente trascina fuori un bidone pieno.

Poi, lungo la Illinois Street, un uomo nella sua auto parcheggiata fuori da un club, bronzeo mentre parla al cellulare. Voglia di mangiare una banana e una deviazione al supermercato notturno prima di rientrare in albergo.

Niente foto, please, la foto ferma un’immagine che deve rimanere libera di muoversi nella testa. La foto va bene solo per chi non c’era.

timing 14 novembre 2010

mercoledì 8 dicembre 2010

IL CIRCOLO DEGLI SCRITTORI DI VILNIUS




È vicino alle poste centrali. Markus ha descritto per tutto il percorso i pregi dell’influenza tedesca sulla Lituania. Davanti a una strada che rompe maestosa e vagamente inutile il groviglio delle stradine dell’ex ghetto ebraico dice con enfasi “Questa l’hanno fatta i tedeschi!” Orgoglio che forse ha origine nella controversa spartizione tra nazisti e sovietici con il patto Molotov-Ribbentrop, in base al quale i lituani si trovarono ceduti al ferreo regime sovietico di collettivizzazione della proprietà e, forse per contrasto, per ribellarsi all’espropriazione dei beni individuali e allo sradicamento dalle loro tradizioni operati sistematicamente dai sovietici, simpatizzarono per i tedeschi. Nel momento sbagliato.

“Ma dove sono finiti gli ebrei di Vilnius?”

“Nel 1941 furono rastrellati e portati su una delle colline vicino in 70.000 e uccisi subito sul posto a colpi di mitragliatrice.” La sua risatina ha il ritmo di un singhiozzo. Pur nell’imbarazzo, ha un suono sinistro come se l’immediatezza di condanna ed esecuzione fossero segno di civiltà.

L’ingresso al Circolo degli scrittori non lascia presagire l’interno: è anonimo, un portone come tanti, orlato di rifiniture. Dietro l’uscio, nell’atrio scuro, si apre una scalinata di legno che si perde nel buio di un piano superiore segnalata a un certo punto solo dal riverbero rosso della passatoia consunta. Il legno delle scale è bruno, così come il corrimano che in alcuni tratti ha perso la lucidatura a forza di essere strofinato dalle mani acide (conciate dal tannino di sigarette e sigari) degli scrittori. L’atrio è sovrastato da un ballatoio massiccio, con le balaustre rette da colonnine, che lo circonda e il soffitto è un ricco cassettone adornato da stucchi argentei o dorati, con motivi floreali stilizzati. Il colpo d’occhio è lo sfarzo austero ed esclusivo dei tradizionali club britannici riservati a facoltosi signori in cerca di isolamento. Poi iniziano a emergere le crepe.

La vernice sui muri è scrostata, esplosa, squarciata dall’interno. La custode, recintata a fianco dell’ingresso da una balaustra di legno, siede su una vecchia poltrona sfondata sopravvissuta alla rottamazione di un aereo dell’Aeroflot (o forse somiglia solamente a una poltrona d’aereo). Lei ha l’aspetto tipico delle donne locali che hanno superato la mezza età: il volto si è mascolinizzato. Basta fare il confronto con le più giovani: con l’età i tratti somatici sembrano allontanarsi dal centro del viso con la stessa determinata lentezza della deriva dei continenti. E prefigurano un collasso a venire dell’espressione. Le sue spalle alte e larghe da nuotatrice sorreggono un vestito informe che cade a piombo. Somiglia a un armadio foderato di stoffa con un accenno di baffi. Chiunque le chieda della toilette, lo afferra per il gomito e lo sospinge verso una scala che scende nel buio introdotta da vigili sentinelle: scope, bastoni, secchi e prodotti per le pulizie. Risponde alle richieste con gesti bruschi, da vigile indaffarato a un incrocio nell’ora di punta e spedendo l’interlocutore nella direzione giusta come se invitasse una macchina a non intralciare.

Nei bagni vagano tubi di rame rotti su un muro che è una geografia di piastrelle rotte. La luce è precaria, gialla. Tutto è frantumato, sconnesso, il pavimento è solcato dalle crepe. Troppo per non essere ovvio, una metafora del disfacimento lasciata a disposizione dei visitatori. Disprezzano i russi e la civiltà collettivizzata dell’Unione Sovietica pur continuando a utilizzarne il lascito. Stracci e detersivi s’incagliano nei solchi: pisciare qui in mezzo è il gesto liberatorio del sopravvissuto a una catastrofe.

La vecchia porta della saletta della direzione del Circolo al piano terra è di legno dipinto, tempestato di cornici, su cui è stata applicata in tempi recenti una serratura di fortuna di plastica bianca. Dentro il busto di chissà quale personaggio della cultura locale o sovietica è buttato su un mobile. Tutto viene giù a pezzi, mobili e scrivanie (e vecchi computer) sono posizionati come se fossero in un magazzino. È un posto che ha oltrepassato la parodia più pacchiana per raggiungere il sublime. Su un tavolino basso una scatola di cioccolatini scuri, ripieni, con una perfetta superficie levigata; il loro aspetto bronzeo è un invito. Nessuno li offre ma assaggiarli è inevitabile. Sono pericolosamente buoni, sembrano la chiave per accedere a un’epoca precedente, in cui tutto era scuro, lucido e sicuro, il prodotto di un’idea priva di incertezze e sbavature. Un’idea che trafiggeva ogni debolezza.

Infine la lettura nella saletta delle conferenze, un trionfo di stucchi, drappi impolverati e sopravvivenze tra cui una vecchia stufa di ghisa in un angolo. Un posto dorato, quasi caldo, in cui la gente ascolta con attenzione. “Non si preoccupa di quello che diranno i suoi genitori quando leggeranno il romanzo?”

timing: 12 ottobre 2010 - foto: courtesy A. Ruchat


venerdì 26 novembre 2010

INFERNO UNO






Disegni per la mostra collettiva "BiroShow", realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm31x23 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana... A The White Gallery, via Felice Casati 26, Milano, dal 2 dicembre 2010 al 15 febbraio 2011: http://www.thewhitegallery.it/thewhitegallery.html

giovedì 4 novembre 2010

APOCALISSE TRE











Altri disegni dal progetto artistico "Apocalisse", realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm14x10 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana...

martedì 26 ottobre 2010

FINESTRE BALTICHE


Dell’albergo Avitar di Riga: un cortile sovietico in cui parlano due signori con il basco in testa. Quello con il cane al guinzaglio indossa un giaccone consumato. Il cortile è stretto tra palazzi incolori e squadrati. Un insetto grigio, attaccato all’esterno del vetro, si mimetizza sullo sfondo.

Cinque ragazzi minacciosi con le teste rasate, un’addetta in bilico sull'equivoco: è incinta o grassa in modo illusorio. Presenze ruvide in un ambiente rosso e nero come una balera avvolta nel torpore mattutino. I ragazzi requisiscono violentemente la caraffa del latte, aspettano una provocazione, parlottano osservando. A richiesta, lei indica in malo modo le bustine del tè, il barattolo del caffè solubile e i thermos con l’acqua calda, non bollente.

La corriera verso Klaipeda attraversa un paesaggio di boschi tagliati da sterrate che scompaiono nell’oscurità tra gli alberi. Nessuno, ma proprio nessuno.

Klaipeda: il canale che si perde verso il porto. Sulla piazza incombe il palazzo abbandonato con il tetto di vetro che potrebbe scivolare a terra da un momento all’altro. Fuori dalla finestra del motel un acciottolato. Una casa a schiera. Nient’altro. La biblioteca è gelata perché il riscaldamento centrale della città non è ancora in funzione. Anche il ristorante è senza riscaldamento. Fredde eredità sovietiche. Nel porto di Klaipeda però l’acqua non gela nemmeno in pieno inverno.

L’entrata a Vilnius da una strada che costeggia un interminabile mercato di baracche e container. Vilnius: polacchi, tedeschi, russi, non solo lituani. Città di colline in mezzo alle foreste.

L’atrio della GuestHouse Telekomo con le foto della nascita della rete telefonica lituana (i pali e gli operai identici a quelli dei film americani, in mezzo al deserto, invece qui lavoravano appesi nel gelo) in un quartiere in cui, dopo il tramonto, gli ubriachi caracollano inclinati. La finestra al secondo piano dà su un cortile che pare essere stato un grande garage, ormai smantellato, scoperchiato, con le strutture andate in malora. Alcune traversine e rotaie arrugginite sparse sul cemento spezzato del vecchio pavimento, forse di tram, altri indizi che andrebbero presi in esame.

Una strada che scende nel vecchio ghetto ebraico, una targa ricorda di sfuggita che in questa casa è nato Romain Gary.

Siauliai, il retro dell’hotel visto dal quarto piano: un cortile tra i caseggiati squadrati, qualche albero e un’altalena. Due piani più in basso, nello stesso edificio dell’albergo, un campo da tennis e da hockey (convertibile) su un tetto di cemento recintato da un’alta rete, a fianco i bocchettoni di sfogo dell'impianto di riscaldamento. L’albergo è un condominio sovietico, quattordici piani con l’ingresso deserto come una caserma durante la libera uscita e una pensilina sulla scalinata simbolo di un'architettura standardizzata.

In città i numeri civici campeggiano grandi e bianchi su fondo verde o blu, sproporzionati, in targhe quadrate di almeno 40 centimetri per lato.

Stanza 414, conversazione su skype con Gabriela, a Buenos Aires è arrivata la primavera "Bussano, vai pure ad aprire la porta. Ci sentiamo dopo." Risposta dalla stanza 414: "Non stanno bussando, è la neve ghiacciata che batte contro le finestre".

La taverna di Plunge interrata come la maggior parte dei luoghi di ristoro lituani. Colonna sonora italiana: Cocciante, Berté, Pausini, Ramazzotti… Toto Cotugno è uno dei musicisti italiani più noti come in ogni paese straniero in cui gli italiani sono considerati folcloristici.

Asta traduce e consiglia romanzi italiani alle case editrici locali, prima di cena pesca da un cartoccino pezzi di mela cotogna secchi. Parla di Ammaniti. "Io non ho paura mi è piaciuto, anche se ha dei passaggi troppo violenti. Ma Come Dio comanda è pieno di cose terribili. Penso che uno scrittore che scrive cose del genere deve essere messo in prigione. Siete d'accordo?"

Un’ora d’attesa con un tè a Siauliai in un posto con le vetrine a imitazione McDonald's, ma all’ingresso il fetore unto di involtini primavera appena fritti. Distribuito su due piani aperti, con arredamento post-moderno anni Ottanta, deserto. Al piano terra un televisore manda un festival della canzone melodica russa dove tutti i cantanti, anche le donne, somigliano a Red Canzian. Il cameriere gay indossa calzoni attillati di pelle.

Ramuné spiega che esiste una commissione di Stato per il controllo di un uso appropriato della lingua lituana. Sorvegliano i mezzi di informazione ma anche le trasmissioni televisive di intrattenimento. Se l'utilizzo della lingua è inappropriato, sbagliato nell'uso della grammatica, del lessico o della pronuncia, partono i richiami ufficiali e si può arrivare all'interdizione.

La prevista gita in Samogizia ai silos con le armi nucleari sovietiche viene annullata perché gli ultimi turisti sono rimasti contaminati.

Gita alternativa in Samogizia al museo diocesano, probabilmente ricostruito dopo essere stato distrutto dai russi nel XIX secolo. L’esterno è completato ma dentro i lavori sono stati abbandonati. Reliquie, calcinacci, lavori in vetro dei ragazzi, una mostra fotografica all'addiaccio sui muri di cemento e mattoni non intonacati del campanile... tutto si mescola in un magazzino di memorie in via di definizione. Nel vuoto, i mattoni, le architravi, le assi di legno, i vetri e le armature di ferro, combattono con dignità il gelo che si allarga tra loro.

Siauliai, la meridiana sovietica e la discesa verso il lago. Su una riva la conceria abbandonata appartenuta prima a una famiglia ebrea, poi requisita dai nazisti. Sull’altra un’enorme e imbarazzante scultura d’acciaio, nelle intenzioni un gatto artistico, impennato e lucido come un Mig. Anatre e cigni (anche neri) presidiano minacciosi le rive.

Il ritorno all’aeroporto di Riga attraverso il finestrino del minivan. La superstrada è una lastra di ghiaccio su cui sfrecciano azzardi. Il minivan sbanda verso l’interno. Colpisce il guard-rail con la parte sinistra del retro e schizza verso il margine opposto della strada, come una slitta. Dal finestrino la fine della strada è a un metro, poi un leggero declivio e i campi. Quante volte capotterà prima di fermarsi? L’immagine delle lamiere che entreranno nella carne. Una nella guancia destra, dall’alto in basso, a farsi strada verso l’interno del collo. Il conducente controsterza e attraversa le tre corsie con due testacoda. Dall’altro finestrino: non arriva nessuno. Un grido dal sedile davanti. Poi lo schianto contro il guard-rail, il fumo dal motore e il traffico che ricomincia fitto, continuo. Uscire illesi dall’occhio del ciclone e trovare un passaggio fino all’aeroporto di Riga, per poi osservare l’altra vita abbandonata oltre l’ultimo finestrino. Ovale.

timing: 10 ottobre/16ottobre 2010 - foto: courtesy R. Brundzaité

domenica 24 ottobre 2010

RIGATTIERE DELLE SPERANZE





La maggior parte del cielo è occupata da nubi squadrate e solide come muraglie rovesciate. Qual è la ragione per cui si prova sempre il bisogno di descrivere le nubi, la pioggia, il cielo… le cose che stanno su in alto e che, pur con un infinito numero di variabili, rimangono in fondo sempre le stesse? Deve essere a causa del loro potere di influenzare lo stato d’animo. Sorprendente pur essendo ogni volta prevedibile. Le muraglie grigie corrono veloci lanciando una pioggia rada, sottile e penetrante. Il sito della Collina delle Croci è anticipato da un piccolo anfiteatro composto di bancarelle allestite in una struttura in muratura e da un negozio di souvenir, al centro si apre un piccolo tunnel che introduce al lungo camminamento di devozione in mattoni grigi fiancheggiato da lampade basse. La terra attorno, scura e morbida, rigurgita armate di lombrichi che vengono a contorcersi sui mattoni. Ogni volta che si apre uno squarcio nella muraglia lassù, la luce penetra dorata, tagliente negli occhi come una lama. Pioggia o sole, bisogna camminare a testa china.

La collina è piccola, circoscritta, ogni croce ambisce a un indefinibile centro… le croci si accalcano per raggiungerlo, elementi di un’ipotetica folla impazzita. Il depliant multilingue che vendono nelle bancarelle spiega in un italiano approssimativo che lì sta la speranza e la fede indomita del popolo lituano. È vicino al villaggio di Jurgaiciai, nel distretto di Siauliai. Luogo di miti e leggende, viene considerata anche monumento archeologico; si dice vi sorgesse un antico castello di legno a difesa del territorio lituano contro fantomatici “cavalieri Portaspada” (forse si riferisce ai cavalieri dell’Ordine Teutonico che occuparono la Samogizia). Ipotesi confermata dal ritrovamento di un sentiero di pietre di calce, gioielli di ottone, armi e ceramiche interrate risalenti a un periodo che va dall’anno Mille al XIV secolo. In occasione delle rivolte del 1831 e del 1863 cominciarono ad apparire le prime croci per le vittime del dominio russo dello zar Nicola I, morti e sepolti sul posto. I russi le estirpavano e nottetempo i lituani le ripiantavano. Successe la stessa cosa dopo la Seconda guerra mondiale, finché nel 1961 i Sovietici spianarono la collina per la prima volta. Le croci non erano un segno di devozione ma il simbolo dell’affermazione dell’identità nazionale di un popolo.

Il 7 settembre 1993 è venuto qui papa Giovanni Paolo II e ha rivendicato per il luogo una natura religiosa, cristiana e cattolica. Ma qui si respira un’aria diversa: la terra è viva, pulsante, milioni di croci sovrapposte sono un magma di voci che gridano richieste, dolore, disperazione… niente che appartenga alla delega dogmatica di una religione come quella cattolica.

Ecco la collina, con un sentiero stretto che la attraversa. Le croci si arrampicano l’una sull’altra e circondano il visitatore. Vi sono croci di tutte le dimensioni: croci che pendono da croci, croci che sorgono ai piedi di altre croci… e in alcune di esse è incastrata una nicchia dove appare la rappresentazione locale del Cristo: seduto, le gambe rachitiche e una grande testa sorretta da una mano come il “Pensatore” di Rodin. È afflitto. Dicono che sia perché lo tormentano le preoccupazioni per le sorti dell’umanità.

Qui gli occhi vedono solo croci e nella mente riecheggia ossessivamente una sola parola: “croci”. Il legno, anche nel caso degli esemplari più commerciali, come di quelli lavorati con cura, preziosi, lucidati e argentati, finisce prima o poi spellato dagli agenti atmosferici che livella tutto a un’unica sostanza: il risultato della corrosione ha il colore grigio e opaco della cenere. Assume la consistenza sfibrata di una stoppia battuta e poi asciugata dal vento.

Le croci convergono verso il visitatore, pendono su di lui, gli si stringono addosso… Milioni di croci, ognuna legata all’azione di una persona che l’ha infilata nel terreno o appesa a un’altra più grande o gettata direttamente in mezzo a un cespuglio di altre. È facile immaginare i piccoli schianti nel silenzio notturno di questo posto desolato, di croci che cadono improvvisamente. Nella testa risuona il rumore di un’attività incessante. La collina è animata, nutrita da gesti che poco hanno a che fare con la devozione e molto con speranze e rivendicazioni, inghiotte le croci nella terra grassa e nera, rivoltata dai lombrichi che, instancabili e voraci, la rimestano senza sosta, fino a farle sue. Amalgama i desideri, le implorazioni, trascinandole nel buio caldo e umido, precipitandole in un cosmo pagano dove le speranze perdono l’essenza aleatoria della fede e acquistano una concretezza sotterranea e minerale. È un purgatorio trionfante, una scorciatoia per un’eternità oscura.

Un fiumiciattolo lento e curvo chiude il versante opposto della collina, stabilendone i confini, impedendole di andare oltre, pronto a inghiottire le croci che si staccano da quella foresta compatta mentre con le sue acque ne alimenta le radici.

La collina si muove restando immobile, scossa da un fremito invisibile, si insinua nel visitatore con le sue emanazioni. Croce tra le croci.

timing: 15 ottobre 2010 - foto: courtesy A. Ruchat

martedì 28 settembre 2010

APOCALISSE DUE











Altri disegni dal progetto artistico "Apocalisse", realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm14x10 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana...

venerdì 17 settembre 2010

TURISMO BELLICO


Il suo nome dice poco al grande pubblico, nonostante Eduard Savenko, conosciuto con l’alias di Limonov, 67 anni, abbia vissuto per qualche tempo anche a Roma e pubblicato alcuni dei suoi 28 romanzi in italiano. Di questo scrittore e poeta russo dalle molteplici sfaccettature, teorico del nazi-bolscevismo da curva, ci interessa la meno esplorata. Quella del turista. Un turista dedito a un turismo molto particolare, ai confini col tappeto sotto cui si seppelliscono molto spesso fatti sostanzialmente inaccettabili: le leggende metropolitane. Ai turisti come Eduard Limonov non ritirano le valige in albergo quando giungono a destinazione, casomai gliele consegnano. E si capirà presto perché. Il leader di un partito (il PNB, nazional-bolscevico) che si segnalò a San Pietroburgo per il pestaggio di alcuni immigrati coreani e a Mosca per il boicottaggio dei film di James Bond, è a suo modo un pioniere del diporto estremo, oltre il turismo sessuale, o i viaggi tra Moldavia, India, Turchia e Santo Domingo alla ricerca di un rene di ricambio. Il turismo di guerra.

Durante l’assedio di Sarajevo, il più lungo nella storia dei conflitti bellici moderni (dal 5 aprile 1992 al 26 febbraio 1996), le sirene del turismo di guerra avrebbero richiamato “clienti” da tutta Europa. Si parlava di una certa agenzia in Austria, che non poteva naturalmente permettersi inserzioni pubblicitarie su quotidiani e tivù, ma sapeva reclutare chi fosse in cerca di emozioni più forti di una battuta al cinghiale. Fandonie come i coccodrilli nelle fogne di New York?

L’offerta Sarajevo era all inclusive. Veniva garantita la possibilità di sparare sulla città e sugli esseri umani che la popolavano dall'alto, da posizione sicura e privilegiata, cioè direttamente dal Monte Igman, alle spalle dell'aeroporto. Non sempre si poteva pretendere il privilegio di avere Radovan Karadzic per guida, ma a Limonov è capitato. Del resto l’incontro datato 1995 con Karadzic era anche una straordinaria occasione di confronto tra colleghi, perché pure lo psichiatra che ora è sotto processo per genocidio, dopo 13 anni di latitanza, scriveva poesie e riceveva premi letterari. Chi fosse alla ricerca di emozioni ancora più forti, perché in fondo il tiro dal Monte Igman era un esercizio da pantofolai, comodo e un po’ alla cieca, nel pacchetto all inclusive si dava la possibilità di vivere la quotidianità dell’assedio sparando sulla gente guardandola negli occhi, donne o bambini che fossero, dagli snipers’ nest, le postazioni dei cecchini situate nel versante est, di fronte alle torri gemelle dell’Holiday Inn che si notano anche nella clip. Nelle stesse immagini troviamo un Karadzic molto “casalingo” e dolce, col cucciolo di pastore tedesco che giocherella coi lacci dei suoi scarponi al punto di dimenticarsi quasi del tutto del “turista per kalashnikov” Eduard Limonov, il tizio in giacca di pelle scura, con l’aspetto a metà strada tra il generale Jaruzelski e Maurizio Arceri dei Krisma. Anche i personaggi di contorno nel video dimostrano di apprezzare la buona poesia. È sempre andata fortissimo dalle parti di Sarajevo.

Lorenzo Sani

APOCALISSE UNO











Primi dettagli del nuovo progetto artistico "Apocalisse". Disegni con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm14x10 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana...