È vicino alle poste centrali. Markus ha descritto per tutto il percorso i pregi dell’influenza tedesca sulla Lituania. Davanti a una strada che rompe maestosa e vagamente inutile il groviglio delle stradine dell’ex ghetto ebraico dice con enfasi “Questa l’hanno fatta i tedeschi!” Orgoglio che forse ha origine nella controversa spartizione tra nazisti e sovietici con il patto Molotov-Ribbentrop, in base al quale i lituani si trovarono ceduti al ferreo regime sovietico di collettivizzazione della proprietà e, forse per contrasto, per ribellarsi all’espropriazione dei beni individuali e allo sradicamento dalle loro tradizioni operati sistematicamente dai sovietici, simpatizzarono per i tedeschi. Nel momento sbagliato.
“Ma dove sono finiti gli ebrei di Vilnius?”
“Nel 1941 furono rastrellati e portati su una delle colline vicino in 70.000 e uccisi subito sul posto a colpi di mitragliatrice.” La sua risatina ha il ritmo di un singhiozzo. Pur nell’imbarazzo, ha un suono sinistro come se l’immediatezza di condanna ed esecuzione fossero segno di civiltà.
L’ingresso al Circolo degli scrittori non lascia presagire l’interno: è anonimo, un portone come tanti, orlato di rifiniture. Dietro l’uscio, nell’atrio scuro, si apre una scalinata di legno che si perde nel buio di un piano superiore segnalata a un certo punto solo dal riverbero rosso della passatoia consunta. Il legno delle scale è bruno, così come il corrimano che in alcuni tratti ha perso la lucidatura a forza di essere strofinato dalle mani acide (conciate dal tannino di sigarette e sigari) degli scrittori. L’atrio è sovrastato da un ballatoio massiccio, con le balaustre rette da colonnine, che lo circonda e il soffitto è un ricco cassettone adornato da stucchi argentei o dorati, con motivi floreali stilizzati. Il colpo d’occhio è lo sfarzo austero ed esclusivo dei tradizionali club britannici riservati a facoltosi signori in cerca di isolamento. Poi iniziano a emergere le crepe.
La vernice sui muri è scrostata, esplosa, squarciata dall’interno. La custode, recintata a fianco dell’ingresso da una balaustra di legno, siede su una vecchia poltrona sfondata sopravvissuta alla rottamazione di un aereo dell’Aeroflot (o forse somiglia solamente a una poltrona d’aereo). Lei ha l’aspetto tipico delle donne locali che hanno superato la mezza età: il volto si è mascolinizzato. Basta fare il confronto con le più giovani: con l’età i tratti somatici sembrano allontanarsi dal centro del viso con la stessa determinata lentezza della deriva dei continenti. E prefigurano un collasso a venire dell’espressione. Le sue spalle alte e larghe da nuotatrice sorreggono un vestito informe che cade a piombo. Somiglia a un armadio foderato di stoffa con un accenno di baffi. Chiunque le chieda della toilette, lo afferra per il gomito e lo sospinge verso una scala che scende nel buio introdotta da vigili sentinelle: scope, bastoni, secchi e prodotti per le pulizie. Risponde alle richieste con gesti bruschi, da vigile indaffarato a un incrocio nell’ora di punta e spedendo l’interlocutore nella direzione giusta come se invitasse una macchina a non intralciare.
Nei bagni vagano tubi di rame rotti su un muro che è una geografia di piastrelle rotte. La luce è precaria, gialla. Tutto è frantumato, sconnesso, il pavimento è solcato dalle crepe. Troppo per non essere ovvio, una metafora del disfacimento lasciata a disposizione dei visitatori. Disprezzano i russi e la civiltà collettivizzata dell’Unione Sovietica pur continuando a utilizzarne il lascito. Stracci e detersivi s’incagliano nei solchi: pisciare qui in mezzo è il gesto liberatorio del sopravvissuto a una catastrofe.
La vecchia porta della saletta della direzione del Circolo al piano terra è di legno dipinto, tempestato di cornici, su cui è stata applicata in tempi recenti una serratura di fortuna di plastica bianca. Dentro il busto di chissà quale personaggio della cultura locale o sovietica è buttato su un mobile. Tutto viene giù a pezzi, mobili e scrivanie (e vecchi computer) sono posizionati come se fossero in un magazzino. È un posto che ha oltrepassato la parodia più pacchiana per raggiungere il sublime. Su un tavolino basso una scatola di cioccolatini scuri, ripieni, con una perfetta superficie levigata; il loro aspetto bronzeo è un invito. Nessuno li offre ma assaggiarli è inevitabile. Sono pericolosamente buoni, sembrano la chiave per accedere a un’epoca precedente, in cui tutto era scuro, lucido e sicuro, il prodotto di un’idea priva di incertezze e sbavature. Un’idea che trafiggeva ogni debolezza.
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