lunedì 4 giugno 2012

ATTRAVERSAMENTI




Un Batman con un’evidente debolezza per l’alcol informa il commissario Gordon e l’amico Fredric Brown (omonimo dello scrittore di noir e fantascienza) sui progressi con la lingua francese di Dick Grayson, alias Robin, che è andato a studiare ad Andover, fuori Gotham. Si dilungano con stupide battute in francese mentre incombe la minaccia del Joker. Impreparato ad affrontare il nemico, Batman viene sconfitto dal suo arcinemico che gli sfila la maschera svelando la sua identità segreta, per Bruce Wayne è finita.
Non si tratta di un fumetto di Batman ma di un racconto di Donald Barthelme, uno dei più importanti scrittori postmoderni statunitensi, contenuto nella sua antologia del 1964 Come Back, Dr. Caligari, e ispirato al numero 148 del 1962 di Batman da cui riprende anche il titolo, “The Joker’s Greatest Triumph!”, ma non la fine, dove un lampo di luce proveniente dal faro dell’aeroporto salva Batman dalla rivelazione.
L’operazione di straniamento consiste proprio nello spostare la narrazione dall’epica supereroistica al contesto quotidiano, fino alle sue estreme conseguenze, come se la realtà rappresentata nelle vignette appartenesse a un bizzarro mondo alternativo.
Un racconto per certi versi cruciale per definire i percorsi intrecciati tra fumetto e letteratura, almeno per quanto riguarda il comic book, e che anticipa e incontra, per certi versi, l’operazione del così detto “revisionismo” supereroistico iniziato da Alan Moore con Miracleman e portato avanti con supereroi più o meno celebri, da Superman alla saga di Watchmen, dove l’idea è quella che tutto quanto appare attraverso le vignette sia la documentazione parziale della vita in un universo, con storia e regole che divergono dalle nostre, in cui gli eroi di carta sono persone vere.
Michael Chabon, nel suo romanzo The Amazing Adventures of Kavalier & Clay, premio Pulitzer 2001, ha ricostruito l’età dell’oro del fumetto di supereroi, la così detta Golden Age, attraverso due personaggi fittizi ispirati a Jerry Siegel e Joe Shuster, i creatori di Superman. Per Chabon sembra esserci il mito, e non solo, del Golem all’origine di tutto, partendo dalla tradizione mitteleuropea e da quella ebraica in particolare. Un crossover tra realtà storiche e finzione, che infonde nel lettore la sensazione di un mondo alternativo, ripreso subito, con modalità e invenzioni differenti, anche da altri scrittori americani tra cui Jonathan Lethem con The Fortress of Solitude e Tom De Haven con It’s Superman!
Nella finzione del romanzo di Chabon il successo di Kavalier e Clay si deve soprattutto alla creazione del personaggio dell’Escapista, supereroe impegnato nello sforzo bellico contro le forze dell’Asse, ripreso in seguito in due miniserie in formato comic book, in cui, insieme a quelle di autori di fumetti, appaiono storie dello stesso Chabon e di un altro scrittore di punta statunitense, Glen David Gold.
Sono molti e di molteplici nature i transiti da fumetto e letteratura (e viceversa) e riguardano autori, personaggi, chiavi interpretative… Negli anni Trenta del secolo scorso Dashiell Hammett si trovava a scrivere naturalmente le strisce dell’agente segreto X-9 disegnate da Alex Raymond così come alcuni autori di fantascienza tra cui Edmond Hamilton, Otto Binder e Alfred Bester scrivevano storie di Superman, Legion of Super-Heroes o Justice League… perché i lettori di riferimento (in genere giovani) erano gli stessi della loro narrativa, ragazzini abituati a un consumo di letteratura popolare, dove i generi e i temi frequentati dai pulp magazine e dai fumetti spesso si sovrapponevano. E non è un caso che un prosecutore del pulp come Joe Lansdale abbia affiancato alla scrittura dei suoi romanzi quella di fumetti tra cui alcuni western-horror e in particolare una miniserie dedicata al pistolero sfregiato Jonah Hex. Una tradizione costellata di trasposizioni ma anche di “tie in”, ovvero innesti e ampliamenti dell’universo narrativo con nuove storie a fumetti di personaggi già noti letterariamente dal Tarzan di Edgar Rice Burroughs all’enigmatico The Shadow, fino a Nero Wolfe, Maigret, Sherlock Holmes, James Bond… Casi spesso trasversali, personaggi impegnati in diversi media, a partire dalla creazione letteraria, dalla serialità radiofonica e televisiva fino al cinema.
Anche gli adattamenti a fumetti hanno un percorso più o meno illustre. Negli anni in cui il fumetto è stato visto come uno dei mezzi di intrattenimento privilegiati di un pubblico giovanile, si sono moltiplicati i classici della letteratura riletti a fumetti intesi come strumento didattico e ancora oggi i maggiori editori del fumetto francese proseguono a produrre volumi tratti da classici per ragazzi tanto da vantare ognuno di essi la sua versione di titoli di Dickens, Stevenson, Twain, London… o delle fiabe di La Fontaine. Attività che in alcuni casi, grazie all’incontro con un fumettista ispirato, dà vita a titoli che non sono semplicemente al servizio dell’originale, ma che creano un’esperienza di lettura del tutto autonoma come la pluripremiata versione di The Wind in the Willows di Kenneth Grahame, realizzata da Michel Plessix.
Ma cosa rende questi adattamenti memorabili? Certamente la non sudditanza rispetto all’opera originale, l’incontro tra forti personalità, grandi autorialità in entrambi i versanti creativi. Si tratta in definitiva della capacità di evitare, grazie allo stile grafico e all’uso dello specifico del linguaggio fumettistico, ogni passività verso l’originale. Esempi in questo senso ce ne sono molti anche nella storia del fumetto italiano: Gianni De Luca si è confrontato con i testi del teatro shakespeariano con due opere, Amleto e il Romeo e Giulietta, che ancora oggi sono un esempio esplorazione delle potenzialità diegetiche del linguaggio del fumetto; Walter Molino e Rino Albertarelli hanno evidenziato la follia sanguinaria del ciclo western di Emilio Salgari; Dino Battaglia ha rafforzato l’impalpabile atmosfera di ambiguità dei classici dell’inquietudine, da Poe a Maupassant; Sergio Toppi ha ricreato nel nero del suo tratteggio il mistero delle fiabe orientali; Manara e Magnus hanno messo in scena la complessità di testi della tradizione cinese con un occhio alla modernità mentre Guido Crepax ha scomposto i classici dell’erotismo con il suo montaggio analitico… Queste opere si differenziano da qualsiasi “riduzione” perché l’apporto del disegnatore non è una semplificazione dell’opera originaria, ma, anzi, ne moltiplica l’immaginario, rendendolo ancor più penetrante, perdurante. La bibliografia di Alberto Breccia è un esempio di tecniche e approcci differenti, di una riflessione sul rapporto tra fumetto e letteratura durata una vita e occasione di autentici capolavori. La sua rilettura dei Chtulhu Mythos di H.P. Lovecraft (ciclo narrativo tra i più adattati e ampliati diventato ormai un tema nell’ambito delle interpretazioni a fumetti) è, di racconto in racconto, un susseguirsi di tecniche e di sperimentazioni, dal collage all’espressionismo astratto, nel tentativo di avvicinare il lettore alla visione degli orrori indicibili descritti dal solitario di Providence. Il maestro argentino dichiarò più volte la sua incapacità di sottrarsi al fascino generato dalla lettura di un romanzo o di un racconto, alla necessità di produrne una sua versione disegnata, a suo modo più sintetica, essenziale e penetrante dell’originale (il che significava mantenere o addirittura moltiplicare l’implicito e gli elementi di suggestione del racconto con immagini capaci di latenza). È rilevante quanto riportato nel volume intervista Ombres et lumières a proposito della versione di Informe sobre los ciegos di Ernesto Sabato: dopo avuto il via libera e aver prodotto la sceneggiatura, Breccia la sottopose allo scrittore che, vedendo i suoi testi ridotti e alcune scene soppresse, protestò ritirando l’autorizzazione finché non fossero stati reintegrati interamente (salvo poi riflettere e ripensarci). Il trasferimento di una storia da un linguaggio a un altro ne altera inevitabilmente la struttura e questo è sempre stato il problema e il pregio degli adattamenti a fumetti ben riusciti e anche il limite nel rapporto tra scrittori e fumettisti. Testimonia della difficoltà di accettare le regole di quella che è stata considerata per tanto tempo un’arte minore, un artigianato dall’uso veloce.
L’idea di graphic novel, ovvero di romanzo grafico, definizione coniata da Will Eisner nel 1978, in occasione del suo passaggio da autore seriale noto per il personaggio di Spirit, il detective creduto morto, a quello di narratore di storie di quartiere e di famiglie e sdoganata nel 1989 dal successo di Maus di Art Spiegelman, ha certamente affrancato il fumetto d’autore dal sospetto di essere un’arte inferiore e quindi dalla diffidenza degli scrittori. Uno degli adattamenti che hanno segnato la svolta in questo passaggio è sicuramente quello di City of Glass di Paul Auster, ridotto a fumetti da Paul Karasik alla sceneggiatura e David Mazzucchelli ai disegni nel 1994, dove il quesito gnostico del romanzo viene amplificato da un lavoro di sintesi grafica e narrativa in sottrazione. Sono molti oggi gli scrittori che collaborano a diverso titolo con autori di fumetti, da chi si limita a rendere disponibile le proprie opere fino ai casi in cui viene prodotto un soggetto originale, rompendo un tabù che riguardava la possibilità di considerare il fumetto una lettura adulta. In Italia Niccolò Ammaniti, Giancarlo De Cataldo, Massimo Carlotto e Gianrico Carofiglio hanno contribuito con storie originali diventate altrettanti graphic novel per editori maggiori, non specializzati in fumetto.
Alla rivoluzione nella percezione del fumetto popolare hanno contribuito in maniera determinante gli sceneggiatori britannici, a cominciare dal già citato Alan Moore, il cui contributo “adulto” a un genere destinato a un pubblico giovanile come le serie supereroistiche ha dato coscienza ai lettori di trovarsi di fronte a una rottura delle barriere tra cultura alta e cultura bassa. La complessità di temi, di risvolti filosofici e di riferimenti all’attualità, oltre che la ricerca di innovazione del linguaggio sin dal “decoupage”, in saghe come quelle di Swamp Thing, la creatura della palude, Watchmen, V for Vendetta o Prometea, per citare alcuni esempi significativi, ha portato il fumetto seriale, e i suoi lettori, a sentirsi orgogliosi della propria identità, rivendicando le potenzialità di una narrazione che non è più archiviabile come solo intrattenimento. Moore ha confermato poi le sue capacità letterarie scrivendo graphic novel tra cui From Hell, sulla Londra d’epoca Vittoriana di Jack lo Squartatore, o un romanzo complesso ed esoterico come Voice of the Fire.
Un discorso analogo riguarda l’altro sceneggiatore inglese protagonista di un intenso scambio tra i due linguaggi: Neil Gaiman. Anche se gli inizi del suo contributo alla produzione popolare ricalcano le orme di Moore, riprendendo in mano un vecchio personaggio dimenticato come Sandman, opera una piccola rivoluzione. Sandman è il Signore del Sogno, che Gaiman rende trasparente, adatto ad attraversare diverse dimensioni della commedia umana. Sandman di Gaiman è una vera e propria serie, sintonizzata sui gusti di un lettore che ascolta musica “gothic” (o “dark”, a seconda dei punti di vista), e che comincia a fare suo tutto ciò che gli corrisponde: da Shakespeare (che compare oltre che con le sue opere anche in persona nel fumetto) al confronto con le “faerie tales” fino alle versioni iconiche e non della Morte… Un apparente prodotto di nicchia si è rivelato toccare così a fondo le origini leggendarie dell’immaginario fantastico da ottenere un riscontro globale colpendo ogni tipo di lettore. Senza più divisioni tra medium, Neil Gaiman è diventato uno degli autori di riferimento della letteratura contemporanea che slitta tra lettori adulti e adolescenti, in quel genere privo di demarcazioni raccolto sotto la definizione insufficiente di “young adults”.
Fumetto e letteratura non smettono quindi di interagire, di “rubarsi” storie e autori a vicenda, ma quanto in passato poteva essere archiviato in un ambito destinato a un pubblico ghettizzato e considerato intellettualmente minoritario oggi è entrato definitivamente in una fase adulta. 

martedì 17 gennaio 2012

RACCONTI DA PAZ

Dove l'indisciplina si sublima nell'ossessione

Con i suoi maglioncini corti e stretti, spesso a rombi, il collo a V e portati a pelle, con i capelli arricciati, con il suo disinteresse per lo stile e il volto di irregolarità ben equilibrate che apparteneva a una periferia indomabile… cosa ci faceva Andrea negli anni Ottanta?

Era andato avanti e indietro nel tempo, incoercibile. Sbucava direttamente dagli anni Settanta e non la smetteva mai di disegnare su qualsiasi superficie e in qualsiasi occasione. Forse perché quel decennio non era il suo, l’eternità dei suoi disegni e del suo immaginario appartenevano al precedente. Si sentiva fuori posto, viveva più dentro che fuori.

Non aveva la vocazione dell’insegnante; quando non dimenticava l’orario delle lezioni, appariva alla scuola “Zio Feininger per spiegare agli allievi come diventare autori di fumetto impugnando la katana di legno. Arrivava direttamente dalle lezioni di kendo (che avrà frequentato al massimo per qualche mese). Pretendeva di dimostrare che “la via della spada” era giusta anche per chi voleva intraprendere quella dell’autore di fumetti. Cercava di smentire se stesso che non sapeva nulla della disciplina: la sua forza era una giostra di ossessioni in cui disegnare e tutto il resto erano funzioni imprevedibili di un irrequieto corpocervello.

“Come ci siamo conosciuti?” chiede dopo la lezione, diretti in osteria per una birra, distanti qualche metro dai ragazzi che si sono accodati.

“Non me lo ricordo,” in effetti era così, anche se era passato solo qualche mese. “Forse a Frigidaire. Quando sono arrivato c’era fuori Tanino che bestemmiava, Vincenzo che cercava di calmare Massimo perché Filippo sparava a zero sulle sue storie e Stefano che cagava dentro il cesso. Con le pareti di legno si sentiva tutto dentro la redazione: odori e rumori. E tu…”

“Non c’ero.”

“Hai ragione. Lo sai che la prima volta che ho portato a vedere i miei disegni al Male mi dissero di mettermi in contatto con te, visto che abitavi a Bologna?”

“Ma dai?”

“Non te lo ricordi nemmeno tu.”

“Vero.”

A quel punto, pur essendo riemerso dalla foschia mentale il primo incontro, nessuno dei due ne fa parola. Andrea è imprevedibile: gentile, affabile, cortese, nasconde qualcosa di meschino che ha a che fare con le sue debolezze. Come quando ha chiesto a una tua amica perché cazzo tu eri in quel gruppo che faceva fumetti, design, performance… e lui, che era sicuramente un disegnatore più bravo di te, non era stato chiamato. “Perché tu sei rozzo e ignorante e lui no,” gli aveva risposto lei poco prima di andarci a letto. “Accontentati, che te ne importa?”

Andrea difficilmente si negava delle esperienze. E credeva sempre di essere più amato di chiunque altro. “Ehi, di’ un po’,” abbassa la voce arrivando sulla soglia dell’osteria.

“Sì…?”

“Non c’è…?” Fa il nome di una delle allieve, tu non sai neanche chi sia.

“Perché?”

“Sudaticcia, più grande delle altre. Trenta.”

“Andrea, non lo so. Qual è il problema?”

Sorride. Il suo sorriso sono più sentimenti messi insieme, contrastanti tra loro; è sincero ma contiene una vertiginosa tristezza: è una smorfia di dolore, è la dichiarazione che se ti lascerai sedurre dalla perfezione apparente delle sue labbra un giorno la pagherai condividendo la sua parte oscura. Ti attrae nella sua tela, spartisce il suo dolore. È uno di quei sorrisi che non illuminano il viso: lo nasconde dietro un paravento d’ombra. Se ti sporgi per sapere cosa c’è dietro sei fottuto. “Accelera, se no ci sentono.” Si guarda alle spalle come se vedesse gli altri solo adesso. Saranno una mezza dozzina, non di più. “Non c’è…”

“Dai, racconta.”

“Insisteva. Non sai quanto. Non so neanche chi cazzo le ha dato il mio numero di telefono. Mi faceva le telefonate.”

“Ma no!” Solo lui può fare ironia su di sé, mai immaginerebbe che ti azzardi.

“Mi chiama, fa ‘ciao’ e poi zitta. Non so che accidenti vuole.”

“Sesso telefonico.”

“Cazzo ridi. Non gliene frega dei fumetti. Fa l’infermiera.” Una pausa. “M’attizza l’infermiera.”

“Perverso.”

“No, ma che dici. È l’idea. Anzi, è la parola: infermiera.” Arrota le erre.

“Allora che paura hai?”

“Aspetta, non è finita… La settimana scorsa è passata a casa. Il campanello squilla, era lei.”

“Chi le ha dato l’indirizzo?”

“Forse io.”

Magari anche il numero di telefono, pensi.

“L’ho fatta salire, mica potevo lasciarla lì. Voleva scopare. Non sai le cose che mi ha detto. Sembrava pazza. Tremava. Mi abbracciava… E sudava come un maiale.”

“E tu?” Domanda inutile.

In certe fasi dei suoi racconti Andrea ritrova una perfetta identità con i suoi disegni: assume le stesse posizioni dei personaggi (del suo personaggio preferito: se stesso), i suoi movimenti compensano tutto ciò che nei fumetti non si vede e il tono di voce è esattamente quello con cui vanno letti i suoi testi. A volte ha la bassezza e la grandiosità di Eduardo.

“Cosa potevo fare?” Alza le mani. A questo punto tu sparisci, il racconto è autosufficiente, non ha bisogno di qualcuno che ascolti. “Prova a baciarmi e la schivo. Cerco di svincolarmi. Vado a preparare un caffè. Lei va in bagno. Torno e non la trovo, non c’è più, sparita. Invece è in camera da letto. Mi viene un soprassalto, quasi svengo.” Si tocca il petto. “È dentro il letto. Nuda.”

Sei assalito dall’immagine dell’appartamento da studente fuori sede con i mobili di recupero, le vecchie mattonelle del pavimento, le tendine fornite dalla mamma, i gatti di polvere e l’immagine di un letto che sembra uscita da una brutta commedia erotica italiana. Finisci per riconoscere la ragazza per il senso di patetico con cui l’ha descritta. Lui la segue sotto le coperte come se obbedisse al destino.

“Era flaccida. Magra, flaccida e sudata. Peccato che non te la ricordi ma immaginati una che balbetta con un terribile accento bolognese e comincia a dire porcate. Poi,” con indice e pollice della destra mima come se estraesse qualcosa dalle labbra per riporlo da una parte, “tira fuori una mentina dalla bocca e la mette in un fazzolettino di carta che aveva appoggiato sul comodino.”

Sa bene che ha mimato un vecchio che si sfila la dentiera, ed è così abile nel disegnare l’arco del gesto che pare di vedere un filo di saliva che segue il percorso delle dita.

“E poi?”

“Col cazzo che l’ho baciata.”

Non chiedi altro.

Poco dopo siete a un tavolaccio, bevete una birra. Parlate con i ragazzi dei fumetti di Moebius, Liberatore e Pratt. Su una tovaglietta fa alcuni disegni per loro. Parla con le sue pause strategiche, i movimenti repentini della testa e delle spalle. Ti chiedi ingenuamente come mai sia venuto a raccontare una storia così intima proprio a te. Non ti considera, neanche si ricorda quando vi siete conosciuti.

Andrea era uno che amava la divulgazione.