martedì 17 gennaio 2012

RACCONTI DA PAZ

Dove l'indisciplina si sublima nell'ossessione

Con i suoi maglioncini corti e stretti, spesso a rombi, il collo a V e portati a pelle, con i capelli arricciati, con il suo disinteresse per lo stile e il volto di irregolarità ben equilibrate che apparteneva a una periferia indomabile… cosa ci faceva Andrea negli anni Ottanta?

Era andato avanti e indietro nel tempo, incoercibile. Sbucava direttamente dagli anni Settanta e non la smetteva mai di disegnare su qualsiasi superficie e in qualsiasi occasione. Forse perché quel decennio non era il suo, l’eternità dei suoi disegni e del suo immaginario appartenevano al precedente. Si sentiva fuori posto, viveva più dentro che fuori.

Non aveva la vocazione dell’insegnante; quando non dimenticava l’orario delle lezioni, appariva alla scuola “Zio Feininger per spiegare agli allievi come diventare autori di fumetto impugnando la katana di legno. Arrivava direttamente dalle lezioni di kendo (che avrà frequentato al massimo per qualche mese). Pretendeva di dimostrare che “la via della spada” era giusta anche per chi voleva intraprendere quella dell’autore di fumetti. Cercava di smentire se stesso che non sapeva nulla della disciplina: la sua forza era una giostra di ossessioni in cui disegnare e tutto il resto erano funzioni imprevedibili di un irrequieto corpocervello.

“Come ci siamo conosciuti?” chiede dopo la lezione, diretti in osteria per una birra, distanti qualche metro dai ragazzi che si sono accodati.

“Non me lo ricordo,” in effetti era così, anche se era passato solo qualche mese. “Forse a Frigidaire. Quando sono arrivato c’era fuori Tanino che bestemmiava, Vincenzo che cercava di calmare Massimo perché Filippo sparava a zero sulle sue storie e Stefano che cagava dentro il cesso. Con le pareti di legno si sentiva tutto dentro la redazione: odori e rumori. E tu…”

“Non c’ero.”

“Hai ragione. Lo sai che la prima volta che ho portato a vedere i miei disegni al Male mi dissero di mettermi in contatto con te, visto che abitavi a Bologna?”

“Ma dai?”

“Non te lo ricordi nemmeno tu.”

“Vero.”

A quel punto, pur essendo riemerso dalla foschia mentale il primo incontro, nessuno dei due ne fa parola. Andrea è imprevedibile: gentile, affabile, cortese, nasconde qualcosa di meschino che ha a che fare con le sue debolezze. Come quando ha chiesto a una tua amica perché cazzo tu eri in quel gruppo che faceva fumetti, design, performance… e lui, che era sicuramente un disegnatore più bravo di te, non era stato chiamato. “Perché tu sei rozzo e ignorante e lui no,” gli aveva risposto lei poco prima di andarci a letto. “Accontentati, che te ne importa?”

Andrea difficilmente si negava delle esperienze. E credeva sempre di essere più amato di chiunque altro. “Ehi, di’ un po’,” abbassa la voce arrivando sulla soglia dell’osteria.

“Sì…?”

“Non c’è…?” Fa il nome di una delle allieve, tu non sai neanche chi sia.

“Perché?”

“Sudaticcia, più grande delle altre. Trenta.”

“Andrea, non lo so. Qual è il problema?”

Sorride. Il suo sorriso sono più sentimenti messi insieme, contrastanti tra loro; è sincero ma contiene una vertiginosa tristezza: è una smorfia di dolore, è la dichiarazione che se ti lascerai sedurre dalla perfezione apparente delle sue labbra un giorno la pagherai condividendo la sua parte oscura. Ti attrae nella sua tela, spartisce il suo dolore. È uno di quei sorrisi che non illuminano il viso: lo nasconde dietro un paravento d’ombra. Se ti sporgi per sapere cosa c’è dietro sei fottuto. “Accelera, se no ci sentono.” Si guarda alle spalle come se vedesse gli altri solo adesso. Saranno una mezza dozzina, non di più. “Non c’è…”

“Dai, racconta.”

“Insisteva. Non sai quanto. Non so neanche chi cazzo le ha dato il mio numero di telefono. Mi faceva le telefonate.”

“Ma no!” Solo lui può fare ironia su di sé, mai immaginerebbe che ti azzardi.

“Mi chiama, fa ‘ciao’ e poi zitta. Non so che accidenti vuole.”

“Sesso telefonico.”

“Cazzo ridi. Non gliene frega dei fumetti. Fa l’infermiera.” Una pausa. “M’attizza l’infermiera.”

“Perverso.”

“No, ma che dici. È l’idea. Anzi, è la parola: infermiera.” Arrota le erre.

“Allora che paura hai?”

“Aspetta, non è finita… La settimana scorsa è passata a casa. Il campanello squilla, era lei.”

“Chi le ha dato l’indirizzo?”

“Forse io.”

Magari anche il numero di telefono, pensi.

“L’ho fatta salire, mica potevo lasciarla lì. Voleva scopare. Non sai le cose che mi ha detto. Sembrava pazza. Tremava. Mi abbracciava… E sudava come un maiale.”

“E tu?” Domanda inutile.

In certe fasi dei suoi racconti Andrea ritrova una perfetta identità con i suoi disegni: assume le stesse posizioni dei personaggi (del suo personaggio preferito: se stesso), i suoi movimenti compensano tutto ciò che nei fumetti non si vede e il tono di voce è esattamente quello con cui vanno letti i suoi testi. A volte ha la bassezza e la grandiosità di Eduardo.

“Cosa potevo fare?” Alza le mani. A questo punto tu sparisci, il racconto è autosufficiente, non ha bisogno di qualcuno che ascolti. “Prova a baciarmi e la schivo. Cerco di svincolarmi. Vado a preparare un caffè. Lei va in bagno. Torno e non la trovo, non c’è più, sparita. Invece è in camera da letto. Mi viene un soprassalto, quasi svengo.” Si tocca il petto. “È dentro il letto. Nuda.”

Sei assalito dall’immagine dell’appartamento da studente fuori sede con i mobili di recupero, le vecchie mattonelle del pavimento, le tendine fornite dalla mamma, i gatti di polvere e l’immagine di un letto che sembra uscita da una brutta commedia erotica italiana. Finisci per riconoscere la ragazza per il senso di patetico con cui l’ha descritta. Lui la segue sotto le coperte come se obbedisse al destino.

“Era flaccida. Magra, flaccida e sudata. Peccato che non te la ricordi ma immaginati una che balbetta con un terribile accento bolognese e comincia a dire porcate. Poi,” con indice e pollice della destra mima come se estraesse qualcosa dalle labbra per riporlo da una parte, “tira fuori una mentina dalla bocca e la mette in un fazzolettino di carta che aveva appoggiato sul comodino.”

Sa bene che ha mimato un vecchio che si sfila la dentiera, ed è così abile nel disegnare l’arco del gesto che pare di vedere un filo di saliva che segue il percorso delle dita.

“E poi?”

“Col cazzo che l’ho baciata.”

Non chiedi altro.

Poco dopo siete a un tavolaccio, bevete una birra. Parlate con i ragazzi dei fumetti di Moebius, Liberatore e Pratt. Su una tovaglietta fa alcuni disegni per loro. Parla con le sue pause strategiche, i movimenti repentini della testa e delle spalle. Ti chiedi ingenuamente come mai sia venuto a raccontare una storia così intima proprio a te. Non ti considera, neanche si ricorda quando vi siete conosciuti.

Andrea era uno che amava la divulgazione.

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