domenica 29 agosto 2010

GASTONE

Se avete la puzza sotto il naso, lui ve la toglie con il patchouli. È arbitro di eleganza letteraria, colui che ha scritto di disprezzare la maggior parte dei narratori nostrani perché nei loro romanzi c’è sentore di sugo e di cucina. Ha esaltato autori come Giorgio Faletti e Alessandro Piperno e riservato la sua disapprovazione a molti altri. Qualcuno potrebbe chiedersi perché sia un uomo temuto, come facciano i lettori a considerarlo un critico. In effetti è come se scambiassimo Oronzo Canà per un profeta del calcio dopo aver visto L’allenatore nel pallone o Renato Pozzetto per un disegnatore di fumetti a causa di Questo e Quello. È la collocazione a fare di lui un critico rispettato, venerato, seguito, ascoltato, senza farci sospettare che ne sia la parodia. Ovvero è grazie all’autorità e al potere che gli deriva dal pubblicare i suoi pezzi su Sette, l’allegato settimanale del Corriere della Sera. È una firma importante. O come recita con grande autolesionismo la scheda di prenotazione per le librerie del suo primo romanzo in uscita il prossimo ottobre: “…firma la più discussa, discutibile, indiscussa e indiscutibile, rubrica di libri che c'è, nella quale ha cercato di dare agli italiani il gusto di parlare di romanzi e di scrittori con la stessa competenza e passione con le quali di solito parlano di partite e giocatori di calcio”.

Sì, è lui, il Principe del fané, Antonio D’Orrico. E come ribadito dalla scheda – rimanendo in termini calcistici – con un geniale autogol mondadoriano, scrive di letteratura come al bar si parla di calcio.

E a far coincidere ulteriormente chiacchiere da bar e letteratura è venuto il sospirato momento del suo primo romanzo. Titolo? Liberamente ispirato, pubblicato nella collana SIS Mondadori, quindi quella letteraria. Noblesse oblige. Ovvero, in quanto potente titolare di una rubrica settimanale, l’editore è ben contento di compiacere Antonio D’Orrico.

La scheda che ne traccia i contenuti (la frase precedente proveniva dalla nota biografica) viene qui riprodotta così com’è, integrale, ne vale la pena. E il parallelo con gli esempi più triviali e caserecci della parodia cinematografica all’italiana è inevitabile. Se avesse avuto più coraggio avrebbe potuto sfiorare il sublime di Ultimo tango a Zagarolo, dell’Esorciccio o di Ku-Fu? Dalla Sicilia con furore, invece è ancora troppo legato a modelli letterari – per lui irraggiungibili – come, possiamo supporre, Arbasino o Isherwood. Che lo rendono ridicolo senza la prospettiva di diventare di culto. Dai nomi dei personaggi alla trama, non necessita di commenti. Prosit.

Antonio D’Orrico Liberamente ispirato, in libreria da ottobre 2010

Nel salotto della bella Selvaggia Venanzi, il più esclusivo di Roma, il giovane, promettente ed emozionatissimo commediografo Vittorio Campari sta per dare lettura del suo nuovo lavoro quando Kashmir Paolazzi, il famoso giornalista, gli ruba la scena e illustra ai presenti il suo ennesimo, formidabile scoop: l’invenzione della bomba atomica portatile (come il telefonino) da parte di uno scienziato italiano costretto a emigrare all’estero a causa del deprecabile fenomeno della fuga dei cervelli. Deluso dall’esito di quella che avrebbe dovuto essere la sua serata, scippatagli dal celebre inviato, Vittorio Campari ritorna nel suo modesto bilocale in periferia deciso a dire addio ai suoi sogni di gloria letteraria e mondana. Eppure proprio quella notte in cui tutto sembra perduto, nella vita di Vittorio si verifica una inattesa doppia svolta, professionale e sentimentale, che lo catapulta in una serie di avventure comiche, drammatiche, sconce, romantiche, hollywoodiane, palermitane, pazze e criminali.

giovedì 26 agosto 2010

ETICA E LIBRI


Ci sono editori che vivono a spese della regione a statuto speciale, ci sono editori che vincono prodigiosamente gare di appalto per tutte le pubblicazioni di “edutainment” di alcune regioni, ci sono editori che ricevono contributi per la carta su periodici discutibili a dispetto di altri che, viene detto dall’apposita commissione, “non fanno editoria di cultura”, ci sono editori che turlupinano fondi di sovvenzione per la promozione della cultura di qualche paese straniero fingendo di stampare e realizzando in “print on demand” solo le copie necessarie per la finzione, ci sono editori che non “evadono” ma “eludono”… e poi tutti a scandalizzarsi per Mondadori. Niente è più specchio di un paese mafioso dell’editoria italiana, in fondo molto simile a una lotta tra clan (dove il più forte, ovviamente, domina).

I milioni di tasse evasi da Mondadori verranno pagati indistintamente da tutti i contribuenti e, ironia della sorte, anche chi non legge un solo libro durante l’anno, si troverà a contribuire suo malgrado. Del “decreto 40”, definito “ad aziendam” da alcuni organi di informazione, che risolve una controversia fiscale risalente al 1991 si è già letto. La transazione permette a Mondadori di portare 350 milioni di tasse a 8 e mezzo circa, con un notevole risparmio. Ovviamente è superfluo ricordare la coincidenza tra la proprietà della Mondadori (famiglia Berlusconi) e l’attuale presidenza del governo italiano.

Il teologo Vito Mancuso, autore Mondadori, ha esposto su Repubblica del 21 agosto il suo caso di coscienza: “Come posso fare dell’etica la stella polare della mia teologia e poi pubblicare libri con un’azienda che non solo dell’etica ma anche del diritto mostrerebbe in questo caso, una concezione alquanto singolare?” Per poi lanciarsi in un lungo sproloquio (di implicito “lavaggio del sé” con speranza di catarsi, molto cattolico), in cui si dibatte tra coscienza ed esegesi dei meriti editoriali di Mondadori. E alla fine allarga a una corresponsabilità (anche questa procedura mi sembra tipicamente cattolica) in cui chiama in causa suoi esimi colleghi di Repubblica che pubblicano per Mondadori ed editrici controllate: “Sto parlando di firme come Corrado Augias, Piero Citati, Federico Rampini, Roberto Saviano, Nadia Fusini, Piergiorgio Odifreddi, Michela Marzano (…) Eugenio Scalfari, Gustavo Zagrebelsky, Adriano Prosperi…”

In cosa consiste il grosso dubbio di Mancuso, che appare comunque sincero fino all’autolesionismo? “Da un lato un debito di riconoscenza per l’editrice che ha avuto fiducia in me quando ero sconosciuto, dall’altro il dovere civico di contrastare un’inedita legge ad aziendam che si sommerebbe alle 36 leggi ad personam già confezionate per l’attuale primo ministro (…) A tutto questo si aggiunge lo stupore per il fatto che il Corriere della Sera, gruppo Rizzoli principale concorrente Mondadori, finora abbia dedicato una notizia di poche righe alla questione: come mai?”

Lancio giusto per il Corriere del giorno dopo, che fa il paginone, nel quale c’è un articolo di Paolo Di Stefano titolato esaurientemente: “Una coerenza fuori tempo massimo”. Di Stefano elenca le innumerevoli occasioni (e ragioni) di dissociazione date dalla controversa natura del gruppo Mondadori ai suoi autori e puntualmente disattese. E conclude con una frase piena di inevitabile sarcasmo: “Vediamo se qualcuno dei tanti nemici del Caimano evocati da Mancuso troverà lo slancio di orgoglio capace di mettere in discussione la propria coerenza civile”.

“Orgoglio” è la parola chiave, perché Di Stefano, occupandosi di scrittori italiani, sa bene che sono quasi tutti dei leccaculo per loro sostanziale e inevitabile natura. Almeno il 90%. E un’altra indicazione era contenuta nell’articolo di Mancuso che ricordava il catalogo di Mondadori e i soldi di Mondadori. Lo scrittore è un poveretto (quando non giornalista, in quel caso ha un bello stipendio e scrivere libri concorre a lucidare il suo ego) che sogna di pubblicare per un grosso gruppo editoriale, perché così può sperare in: visibilità, gloria e denaro. Quindi è inutile sperare negli scrittori. Qualcuno potrà andarsene ma impossibile una sollevazione di tutti gli autori “di sinistra”. Ma è anche ipocrita pensare che esista un capitalista buono o di sinistra (la seconda è una contraddizione insuperabile negli stessi presupposti teorici; nel socialismo ideale e morfologico sono la stessa cosa). Basta guardare il consiglio di amministrazione di RCS, confindustriali, non certo intellettuali. Del resto se un pessimo scrittore fascista come Montanelli ha cominciato a essere considerato un eroe rivoluzionario dopo aver litigato con Berlusconi o il signor “Gladio” Cossiga diventa alla morte un benemerito della Repubblica è evidente che viviamo nella “zona grigia”. Saviano la riconosce alla radice nella politica e nel sociale italiani, ripete sempre che in Italia la “zona grigia” “sfuggente, opaca, nebulosa, perché è fatta di infinite tonalità di grigio” è una condizione globale, è la regola di ogni aspetto delle relazioni sociali ed economiche italiane: cultura e comunicazione non sfuggono. Il gruppo Mauri o RCS o qualsiasi altro grande editore italiano non sono meglio di Mondadori solo perché non hanno un primo ministro che li aiuta, sono nella zona grigia, operano, come possono, in modo simile…

E a questo punto, a parte lo scarso coraggio degli autori, interviene il rapporto con le competenze: chi lavora e come lavora. Un buon direttore editoriale, un buon editor, un buon redattore valgono più della proprietà della casa editrice, qualora, ovviamente, la proprietà non voglia entrare nel merito (censura o altro…) di ciò che pubblica. Per il resto Mondadori non è differente da Fiat, per cui lo stato italiano ha lavorato con più dedizione che per qualunque altra causa. O da RCS e da Rai, da Mediaset e dai quotidiani di partito e non.

Cosa succederà ora?

Stefano Mauri, del Gruppo Editoriale Mauri Spagnol (che comprende tra gli altri Guanda, Longanesi, Salani, Garzanti, Bollati Boringhieri…) il 23 ha rilasciato una dichiarazione cerchiobottista ad Affaritaliani.it (dove può essere reperita per intero), contenente comunque molte inoppugnabili verità, alcune frecciatine a uso degli addetti ai lavori e opportune omissioni. Per esempio: “Gli scrittori non sono calciatori. Lavorano sul lungo periodo. La gestazione di un libro può durare anni e i contratti decenni. Dunque nessuno si aspetti improvvisi cambi di casacca da parte di frotte di autori. Non è nemmeno contrattualmente possibile. (…) Anche piccoli o medi editori indipendenti possono fare la fortuna di un autore e la dimensione della casa editrice non è determinante né per la qualità del lavoro né per i soldi che si guadagnano, visto che gli autori ricevono le royalties in proporzione alle vendite. Certamente se fossi un avversario politico di Berlusconi e pubblicando per lui ricevessi un anticipo ben superiore alle royalties effettivamente recuperate un problema di coscienza me lo porrei. Ma non so se vi siano casi del genere perché sono informazioni che appartengono al rapporto autore-editore. E forse non mi sentirei così scomodo come vorrei essere se mi pubblicasse il mio rivale politico e dovrei necessariamente accettare analoghi dubbi dei miei lettori”.

Questa citazione dovrebbe bastare, perché Mauri sa bene che almeno tre di queste affermazioni sono discutibili: 1) in alcuni casi uno scrittore può svincolarsi il giorno dopo averlo deciso, rendendo l’anticipo e in alcuni casi pagando una penale; 2) piccoli o medi editori indipendenti lottano per sopravvivere, e chi possiede il più grosso distributore librario italiano (Messaggerie è nella holding della famiglia Mauri) lo sa bene. Altro che fare la fortuna. Accade una volta ogni dieci anni, per lotteria; 3) royalties superiori al venduto o al potenziale di vendita vengono regolarmente versate dagli editori agli autori per strapparli alla concorrenza o semplicemente per compiacerli (specie quando si tratta di politici o di personaggi pubblici).

La polemica si allarga anche al folclore editoriale con un’intervista sopra le righe all’autore Mondadori Ottavio Cappellani apparsa sempre su Affaritaliani.it: “L'appello di Vito Mancuso? Nulla di che. Non vende come Saviano quindi è inutile che ‘rompa’. È l’autore di Gomorra a contare… Le butto un'ipotesi, destituita di ogni fondamento, anche se… Saviano non riesce a scrivere il libro sul traffico della cocaina perché sotto scorta. Credo ci sia qualcuno che gli sta consigliando di scrivere un libro sulla P3 sulla scia di Travaglio. Non a caso il più attivo è Stefano Mauri, azionista e de Il Fatto e di Chiarelettere. La lotta in atto è tra Gems e Mondadori (…) ho letto l'intervento di Mauri, che è furbo e vuole Saviano e gli altri autori Mondadori, abbassando i prezzi. Inizia a fare difficoltà. I contratti da rispettare, il fatto che non sia facile cambiare casacca in corso. È molto semplice: gli autori Mondadori che dovessero passare col gruppo Mauri-Spagnol vedrebbero i loro anticipi ridotti al lumicino perché la Gems dovrebbe pagare le penali. Mauri, che è bravo, in questo momento sta promettendo agli autori Mondadori soltanto lavoro editoriale e lancio pubblicitario. Mentre la Mondadori continua nella sua politica di bonifici bancari di anticipi consistenti. Scommettiamo che nessuno abbandonerà Mondadori? Gli consiglio di aspettare ancora un po', ho un'intercettazione di Saviano che prima o poi mi piacerebbe pubblicare. Le assicuro che a quel punto Mauri Saviano se lo compra a due lire…”

Ecco cosa succederà se la polemica prosegue, autori esposti come Saviano verranno messi in difficoltà, costretti a una scelta da fattori estranei al loro percorso autoriale. Alla maggior parte degli altri, che mai si metteranno a dire tutti insieme smettiamo di pubblicare con Mondadori, non resta che l’attesa, affinché l’imbarazzante polemica si esaurisca risucchiata nell’oblio della “zona grigia”.

venerdì 13 agosto 2010

CONFESSIONALE

Voler conoscere uno scrittore perché si amano i suoi romanzi è un’aberrazione, ma come si può definire il caso di uno scrittore che vuole farci conoscere la sua vita per evitare di essere identificato con gli aspetti più “scorretti” della sua opera?

Purtroppo questo è il caso di J.G. Ballard che ne I miracoli della vita (Miracles of Life, edito in Italia da Feltrinelli) rinnega l’implacabile geometria dei suoi scritti per cercare un’assoluzione in prossimità della morte. Lo ammette persino, alla fine del volume, che è stato il suo oncologo a suggerirgli di scrivere questa sua autobiografia, una volta riconosciuto il suo status di malato terminale e in previsione dell’inevitabile soluzione del male. Quindi una scrittura terapeutica che va a intorbidare la precisione chirurgica di quanto prodotto in precedenza da Ballard. Ne emerge una voglia invadente di rassicurare il lettore (e con lui se stesso), in prossimità della propria morte. Ma che ne è dell’orlo dell’abisso su cui ci aveva fatto affacciare, della scarnificazione della storia e dell’orizzonte antropologico (e anche sociale e psicologico, per dirla tutta) operata con libri come Atrocity Exhibition o Crash? Della fine della civiltà come estrema nullificazione dell’essere narrata in racconti e romanzi, spacciati mimeticamente per “fantascienza”, in cui lo spazio interiore esondava per diventare un ambiguo paesaggio globale? Dell’autobiografia che metteva in gioco il punto di vista storico per annullare ragione e torto, bene e male, come implicitamente in Empire of the Sun o The Kindness of Women?

Tutto rinnegato, tradito dall’urgenza di far sentire il peso dei sentimenti. J.G. Ballard sente improvvisamente il bisogno di spiegare l’importanza che hanno avuto per lui le cose che ha fatto, quasi implorando il lettore di ricordarsi della sua vita e non della sua opera. O meglio, di leggere i suoi libri come risultato astratto di un progetto e non di una vocazione. Spiega ogni retroscena e ogni momento della sua esistenza, separandoli nella maggior parte dei casi da quanto ha scritto, quasi scusandosi se a volte i suoi testi sono coltelli ficcati nel cuore ipocrita della cosidetta realtà, riportando tutto a una mitezza famigliare, domestica, costellata di foto di famiglia di genitori, figli, mogli e sopralluoghi. Ci tiene a dire che è stato un bambino simpatico e scavezzacollo, un marito innamorato, un ragazzo padre premuroso… indulge persino nel pettegolezzo più stucchevole, stimolando il basso voyeurismo di un lettore omologato al sistema dei best-seller, quando un tempo il suo era invece un voyeurismo che scendeva implacabile nelle profondità inammissibili della psiche.

L’unica soluzione possibile è togliere questo volume zuppo di patetismo dalla bibliografia di Ballard.

sabato 7 agosto 2010

HIROSHIMA MON AMOUR


Footnotes in Gaza… chi sono le “note a margine della Storia” di cui parla Joe Sacco nel suo ultimo reportage disegnato dalla Palestina? Persone destinate a svanire ai margini degli eventi, a essere risucchiate nella rincorsa esponenziale a un computo delle vittime del conflitto. Per realizzare questo libro, Sacco è tornato nella Striscia di Gaza, intenzionato a documentare un anno cruciale nel rapporto tra Palestina e Israele: il 1956.

Pensate di vivere in un territorio in cui sembra essersi puntato a caso l’indice del destino. E di quel destino rimanere ostaggio. Di vivere al centro di una perenne crisi internazionale ma senza essere abbastanza importanti e significativi da parteciparvi. Alla fine quella frustrazione, quella di un popolo condannato che può solo condividere odio e non speranze, vi sembrerà sufficiente a giustificare gli attentati suicidi.

Sacco esegue la sua ricerca su due binari, passato e presente. I palestinesi contemporanei (giovani o meno) gli chiedono perché voglia parlare di fatti di cinquanta anni prima, e insistono che il presente è molto peggio. Mentre vive in diretta la distruzione sistematica delle case palestinesi da parte delle ruspe blindate israeliane, Sacco va a caccia di testimonianze del passato, riportando ognuna di queste voci con nome e cognome (insistentemente, ripetutamente…). È un libro che parla di rimozioni e lui cerca di reinserire nel tessuto della Storia maggiore una parte delle note che i flussi di informazione eliminano violentemente ogni giorno. Nel 1956, il popolo palestinese rimane schiacciato all’interno di una lotta di interessi economici e politici sullo scacchiere internazionale: Egitto, Gran Bretagna, Francia, Unione Sovietica, Stati Uniti… tutti più o meno coinvolti nella crisi, con Israele pronta a cogliere l’occasione per schiacciare quanto rimane della Palestina.

Si parla di due città nella Striscia di Gaza: Khan Younis, dove con un pretesto (inventato a posteriori…) gli israeliani rastrellano e uccidono brutalmente i maschi validi, e Rafah, dove invece, in quegli stessi giorni di novembre, i maschi vengono raccolti in una scuola come in un lager, umiliati e in alcuni casi massacrati di botte.

In questo resoconto ottenuto attraverso le testimonianze (a volte discordanti perché di fronte a fatti tanto traumatici il sopravvissuto spesso ricombina gli elementi nel modo più utile a sopravvivere allo shock) il male subito sta più nell’umiliazione che nella morte, nella cancellazione del corpo in quanto identità. I palestinesi vengono uccisi quando non possono più essere umiliati. E i vertici israeliani dimostrano di sapere bene che la rimozione dell'identità di una nazione è più efficace se si colpisce la parte connettiva, se si distrugge il tessuto sociale, la sua capacità di riaggregarsi, i vertici sono solo una conseguenza non lo spirito di un popolo. In un ispirato succedersi di passato e presente, Sacco suggerisce che la distruzione sistematica delle case di oggi non è altro che un aggiornamento delle esecuzioni sommarie di cinquanta anni fa. Restituire alla Storia della Palestina le sue note a margine, significa ridare a un popolo la sua identità.

venerdì 6 agosto 2010

BODY LANGUAGE


Arriva in furgone o da un passaggio di accesso a un cortile. Lo aspettano come se dovesse portare le braciole per il barbecue e si emozionano come le groupie di una boyband. Vecchi video di Kimbo Slice, rimasti a galleggiare in rete, in cui lotta in un rimessaggio di barche o in un cortile. Sono l’idea stessa del combattimento di strada: due uomini che se le danno di santa ragione, ma uno dei due è la star: se ti spacca la faccia (o la testa…) non è un problema, anzi, hai avuto un grande onore. La sua personalità, quella del fighter invincibile, si è trasferita in te. La sua leggenda ti ha toccato e ha fatto di te un uomo migliore È un rito di passaggio tramite sottomissione, da cui non esce uno sconfitto ma un uomo.

Sono incontri passati alla storia, perché Kimbo Slice è divenuto un mito. Ormai combatte nel circuito dell’MMA, Mixed Martial Arts, e viene pagato per fare ciò per cui una volta rischiava di essere arrestato e sbattuto in galera. La sfida non è più quella, le scommesse non sono più clandestine. Quei video presi furtivamente per strada hanno l’estetica del cinema porno (e suscitano in noi lo stesso sentimento contrastante di assistere a uno spettacolo brutale ma eccitante) e sopravvivono non come documenti ma come territorio antropologico contemporaneo; dopo essere stati visti migliaia di volte hanno smesso di documentare un frammento di realtà, sono quasi coreografici nella loro violenza. Non hanno più niente di vero: finti, grotteschi, allegorici come un rito pagano. Kimbo ora lotta in televisione in una gabbia contro avversari preparati quanto lui, vince o perde, ma i suoi incontri clandestini sono le radici di una pratica. L’occhio indiscreto ha osservato e registrato un evento ripetibile.