giovedì 21 febbraio 2013

PICCOLE APOCALISSI

venti giovani visionari e un normalizzatore poco cresciuto




Nel maggio del 2011 ho avviato un progetto di collaborazione con i bimbi della prima A della scuola elementare Armandi Avogli di via Saragozza a Bologna. Il lavoro si è sviluppato attraverso una serie di incontri che ha portato alla realizzazione di alcune opere di diverso genere e formato.

L’idea che mi ero fatto all’inizio era che avrei affrontato la forza originaria della loro creatività per incanalarla in un progetto compiuto. Partivo dal presupposto che tutti abbiamo sempre disegnato nell’infanzia; il disegno è infatti una delle attività più spontanee e innate del nostro curriculum che con l’età la maggior parte di noi inibisce e trascura per motivi contingenti spesso legati a un percorso di studio e lavoro o perché paragona i propri manufatti a modelli qualitativi che appartengono a un’ideale “sfera dell’arte” (che si fa forte di un suo supposto “professionismo”). Ogni adulto che non disegna è perché a un certo punto della sua vita ha smesso di farlo, mentre un bambino nel suo rapporto con il disegno ha la naturalezza e la complessità di chi mescola immagini mentali e realtà in un impasto unico che è rappresentazione e racconto del mondo così come lo percepisce.

Da qualche tempo porto avanti un percorso di esplorazione di territori segreti che si snodano all’interno della mia mente. Disegni semiautomatici, con una vocazione vagamente surrealista, che vanno a recuperare i detriti più reconditi della psiche, esseri nati da apocalissi portatili o che risiedono in inferni che francamente è difficile temere. Era come usare l’aspirapolvere negli angoli dell’inconscio, o estirpare una carie da un dente… Un’asportazione che lascia un piacevole senso di pulizia, dando un’impressione di compiutezza senza colpa. E non a caso pochissimi degli esseri nati da quelle divagazioni di una penna a sfera su un foglietto di carta sono veramente minacciosi: sono amichevoli, accettabili, e sicuramente terapeutici. Mi sono chiesto allora se quel procedimento si poteva estendere ad altri, se il benessere e la piacevolezza potevano essere condivise.

E i bambini, non ancora infettati dai timori artificiosi, non primari, che ci perseguitano come esseri socialmente strutturati, avrebbero dato il via a un’apocalisse e spalancato i cancelli di inferni più sostanziali e veri? C’era – c’è – l’abisso in loro?

Forse, a cose fatte, si può dire che a sei anni sono già troppo vecchi, ma sono sicuramente più vicini di un adulto – nel senso anagrafico del termine – alla linea di confine della nascita e a un territorio archetipico meno contaminato dalle suggestioni della cultura e del gusto. Quindi andavano preparati a concentrarsi sul lavoro e a usare gli strumenti per farlo, stimolandoli a un avventuroso viaggio di scoperta.

Andando controcorrente, è stato necessario spiegargli che non ci sono disegni belli o brutti, ma che il disegno ha un valore in quanto espressione e manifestazione di qualcosa di unico che appartiene a chi lo fa. Quel valore per cui molto spesso loro regalano le loro opere con trasporto come segno d’affetto. Un disegno è in fondo una parte di sé. E che tutto ciò che emerge da un disegno ha diritto di esistere. Un disegno può essere un punto di domanda o un’apparizione inaspettata ma non può fare male. In un certo senso un disegno è sempre bello.

Detto questo anche i mostri rintanati nei loro sogni non erano poi così terribili se potevano essere disegnati, forse erano solo compagni di una diversa realtà… Figure che si sottraggono al giudizio.

Ho mostrato loro il mio modo di fare e i miei risultati invitandoli a non imitarmi ma a sentirsi liberi come avevo cercato di esserlo io. Visto che non avevano mai usato prima una penna a sfera, abbiamo prima fatto alcune prove a matita su piccoli foglietti di newsprint di 14 cm x 10.

Poi abbiamo messo da parte i foglietti per attaccare a terra un foglio di carta da scenario alto un metro e mezzo e lungo più o meno tre… ed è iniziato il vero e proprio scatenamento.


Per la colorazione ho fatto seguire ai ragazzi lo stesso procedimento naturale che avevo già sperimentato sui miei mostri dell’apocalisse: materiali naturali, soprattutto cibo preso dalla mensa, frutta, olio e anche erba… Il processo è diventato un vero marasma, con lanci di tè e tisane, frutta e ortaggi maturi schiacciati sulla carta, erbacce strappate dal cortile e strofinate. Un’opera gestuale, nata dalla collaborazioni di venti personalità differenti (a volte in contrasto tra loro nel tentativo di mantenere un’area riconoscibile ed estranea all’ingerenza altrui…). Strappi e lacerazioni erano previsti e si sono puntualmente verificati…

L’inchiostro della penna a sfera è particolarmente soggetto a decolorazione quando esposto alla luce diretta, per non parlare dei colori di origine naturale. Una volta terminato il processo di colorazione il grande foglio era bagnato e sgocciolante. La raccomandazione ai maestri era stata quindi di esporre brevemente il foglio al sole, in cortile vicino alla finestra della classe, per asciugarlo e di ritirarlo presto. Così non è stato. Se lo sono dimenticato fuori, e quel lavoro di giorni, appena finito, si è sbiadito velocemente.

A questo punto era difficile ricostruire il percorso fatto per arrivare a del materiale che potesse essere esposto senza un mio personale intervento. E sarebbe stato disonesto rielaborare i disegni senza dichiararlo esplicitamente. Del resto tutto il progetto era nato da un tentativo di collaborazione… Così ho ripreso i piccoli schizzi “preparatori” a matita e li ho interpretati e riprodotti secondo le consuete modalità con cui avevo lavorato ai miei inferni e alle mie apocalissi. Poi ho cercato di recuperare la forza originaria del grande pannello intervenendo come potevo, riportando brutalmente in luce i disegni svaniti.

Il risultato è la testimonianza di una collaborazione in cui si tenta di mantenere in trasparenza la “luccicanza” dei bambini, ripristinando le loro piccole apocalissi dietro il velo normalizzatore della mano di un adulto che al loro fianco ha provato a dimenticarsi di essere tale.