martedì 26 ottobre 2010

FINESTRE BALTICHE


Dell’albergo Avitar di Riga: un cortile sovietico in cui parlano due signori con il basco in testa. Quello con il cane al guinzaglio indossa un giaccone consumato. Il cortile è stretto tra palazzi incolori e squadrati. Un insetto grigio, attaccato all’esterno del vetro, si mimetizza sullo sfondo.

Cinque ragazzi minacciosi con le teste rasate, un’addetta in bilico sull'equivoco: è incinta o grassa in modo illusorio. Presenze ruvide in un ambiente rosso e nero come una balera avvolta nel torpore mattutino. I ragazzi requisiscono violentemente la caraffa del latte, aspettano una provocazione, parlottano osservando. A richiesta, lei indica in malo modo le bustine del tè, il barattolo del caffè solubile e i thermos con l’acqua calda, non bollente.

La corriera verso Klaipeda attraversa un paesaggio di boschi tagliati da sterrate che scompaiono nell’oscurità tra gli alberi. Nessuno, ma proprio nessuno.

Klaipeda: il canale che si perde verso il porto. Sulla piazza incombe il palazzo abbandonato con il tetto di vetro che potrebbe scivolare a terra da un momento all’altro. Fuori dalla finestra del motel un acciottolato. Una casa a schiera. Nient’altro. La biblioteca è gelata perché il riscaldamento centrale della città non è ancora in funzione. Anche il ristorante è senza riscaldamento. Fredde eredità sovietiche. Nel porto di Klaipeda però l’acqua non gela nemmeno in pieno inverno.

L’entrata a Vilnius da una strada che costeggia un interminabile mercato di baracche e container. Vilnius: polacchi, tedeschi, russi, non solo lituani. Città di colline in mezzo alle foreste.

L’atrio della GuestHouse Telekomo con le foto della nascita della rete telefonica lituana (i pali e gli operai identici a quelli dei film americani, in mezzo al deserto, invece qui lavoravano appesi nel gelo) in un quartiere in cui, dopo il tramonto, gli ubriachi caracollano inclinati. La finestra al secondo piano dà su un cortile che pare essere stato un grande garage, ormai smantellato, scoperchiato, con le strutture andate in malora. Alcune traversine e rotaie arrugginite sparse sul cemento spezzato del vecchio pavimento, forse di tram, altri indizi che andrebbero presi in esame.

Una strada che scende nel vecchio ghetto ebraico, una targa ricorda di sfuggita che in questa casa è nato Romain Gary.

Siauliai, il retro dell’hotel visto dal quarto piano: un cortile tra i caseggiati squadrati, qualche albero e un’altalena. Due piani più in basso, nello stesso edificio dell’albergo, un campo da tennis e da hockey (convertibile) su un tetto di cemento recintato da un’alta rete, a fianco i bocchettoni di sfogo dell'impianto di riscaldamento. L’albergo è un condominio sovietico, quattordici piani con l’ingresso deserto come una caserma durante la libera uscita e una pensilina sulla scalinata simbolo di un'architettura standardizzata.

In città i numeri civici campeggiano grandi e bianchi su fondo verde o blu, sproporzionati, in targhe quadrate di almeno 40 centimetri per lato.

Stanza 414, conversazione su skype con Gabriela, a Buenos Aires è arrivata la primavera "Bussano, vai pure ad aprire la porta. Ci sentiamo dopo." Risposta dalla stanza 414: "Non stanno bussando, è la neve ghiacciata che batte contro le finestre".

La taverna di Plunge interrata come la maggior parte dei luoghi di ristoro lituani. Colonna sonora italiana: Cocciante, Berté, Pausini, Ramazzotti… Toto Cotugno è uno dei musicisti italiani più noti come in ogni paese straniero in cui gli italiani sono considerati folcloristici.

Asta traduce e consiglia romanzi italiani alle case editrici locali, prima di cena pesca da un cartoccino pezzi di mela cotogna secchi. Parla di Ammaniti. "Io non ho paura mi è piaciuto, anche se ha dei passaggi troppo violenti. Ma Come Dio comanda è pieno di cose terribili. Penso che uno scrittore che scrive cose del genere deve essere messo in prigione. Siete d'accordo?"

Un’ora d’attesa con un tè a Siauliai in un posto con le vetrine a imitazione McDonald's, ma all’ingresso il fetore unto di involtini primavera appena fritti. Distribuito su due piani aperti, con arredamento post-moderno anni Ottanta, deserto. Al piano terra un televisore manda un festival della canzone melodica russa dove tutti i cantanti, anche le donne, somigliano a Red Canzian. Il cameriere gay indossa calzoni attillati di pelle.

Ramuné spiega che esiste una commissione di Stato per il controllo di un uso appropriato della lingua lituana. Sorvegliano i mezzi di informazione ma anche le trasmissioni televisive di intrattenimento. Se l'utilizzo della lingua è inappropriato, sbagliato nell'uso della grammatica, del lessico o della pronuncia, partono i richiami ufficiali e si può arrivare all'interdizione.

La prevista gita in Samogizia ai silos con le armi nucleari sovietiche viene annullata perché gli ultimi turisti sono rimasti contaminati.

Gita alternativa in Samogizia al museo diocesano, probabilmente ricostruito dopo essere stato distrutto dai russi nel XIX secolo. L’esterno è completato ma dentro i lavori sono stati abbandonati. Reliquie, calcinacci, lavori in vetro dei ragazzi, una mostra fotografica all'addiaccio sui muri di cemento e mattoni non intonacati del campanile... tutto si mescola in un magazzino di memorie in via di definizione. Nel vuoto, i mattoni, le architravi, le assi di legno, i vetri e le armature di ferro, combattono con dignità il gelo che si allarga tra loro.

Siauliai, la meridiana sovietica e la discesa verso il lago. Su una riva la conceria abbandonata appartenuta prima a una famiglia ebrea, poi requisita dai nazisti. Sull’altra un’enorme e imbarazzante scultura d’acciaio, nelle intenzioni un gatto artistico, impennato e lucido come un Mig. Anatre e cigni (anche neri) presidiano minacciosi le rive.

Il ritorno all’aeroporto di Riga attraverso il finestrino del minivan. La superstrada è una lastra di ghiaccio su cui sfrecciano azzardi. Il minivan sbanda verso l’interno. Colpisce il guard-rail con la parte sinistra del retro e schizza verso il margine opposto della strada, come una slitta. Dal finestrino la fine della strada è a un metro, poi un leggero declivio e i campi. Quante volte capotterà prima di fermarsi? L’immagine delle lamiere che entreranno nella carne. Una nella guancia destra, dall’alto in basso, a farsi strada verso l’interno del collo. Il conducente controsterza e attraversa le tre corsie con due testacoda. Dall’altro finestrino: non arriva nessuno. Un grido dal sedile davanti. Poi lo schianto contro il guard-rail, il fumo dal motore e il traffico che ricomincia fitto, continuo. Uscire illesi dall’occhio del ciclone e trovare un passaggio fino all’aeroporto di Riga, per poi osservare l’altra vita abbandonata oltre l’ultimo finestrino. Ovale.

timing: 10 ottobre/16ottobre 2010 - foto: courtesy R. Brundzaité

domenica 24 ottobre 2010

RIGATTIERE DELLE SPERANZE





La maggior parte del cielo è occupata da nubi squadrate e solide come muraglie rovesciate. Qual è la ragione per cui si prova sempre il bisogno di descrivere le nubi, la pioggia, il cielo… le cose che stanno su in alto e che, pur con un infinito numero di variabili, rimangono in fondo sempre le stesse? Deve essere a causa del loro potere di influenzare lo stato d’animo. Sorprendente pur essendo ogni volta prevedibile. Le muraglie grigie corrono veloci lanciando una pioggia rada, sottile e penetrante. Il sito della Collina delle Croci è anticipato da un piccolo anfiteatro composto di bancarelle allestite in una struttura in muratura e da un negozio di souvenir, al centro si apre un piccolo tunnel che introduce al lungo camminamento di devozione in mattoni grigi fiancheggiato da lampade basse. La terra attorno, scura e morbida, rigurgita armate di lombrichi che vengono a contorcersi sui mattoni. Ogni volta che si apre uno squarcio nella muraglia lassù, la luce penetra dorata, tagliente negli occhi come una lama. Pioggia o sole, bisogna camminare a testa china.

La collina è piccola, circoscritta, ogni croce ambisce a un indefinibile centro… le croci si accalcano per raggiungerlo, elementi di un’ipotetica folla impazzita. Il depliant multilingue che vendono nelle bancarelle spiega in un italiano approssimativo che lì sta la speranza e la fede indomita del popolo lituano. È vicino al villaggio di Jurgaiciai, nel distretto di Siauliai. Luogo di miti e leggende, viene considerata anche monumento archeologico; si dice vi sorgesse un antico castello di legno a difesa del territorio lituano contro fantomatici “cavalieri Portaspada” (forse si riferisce ai cavalieri dell’Ordine Teutonico che occuparono la Samogizia). Ipotesi confermata dal ritrovamento di un sentiero di pietre di calce, gioielli di ottone, armi e ceramiche interrate risalenti a un periodo che va dall’anno Mille al XIV secolo. In occasione delle rivolte del 1831 e del 1863 cominciarono ad apparire le prime croci per le vittime del dominio russo dello zar Nicola I, morti e sepolti sul posto. I russi le estirpavano e nottetempo i lituani le ripiantavano. Successe la stessa cosa dopo la Seconda guerra mondiale, finché nel 1961 i Sovietici spianarono la collina per la prima volta. Le croci non erano un segno di devozione ma il simbolo dell’affermazione dell’identità nazionale di un popolo.

Il 7 settembre 1993 è venuto qui papa Giovanni Paolo II e ha rivendicato per il luogo una natura religiosa, cristiana e cattolica. Ma qui si respira un’aria diversa: la terra è viva, pulsante, milioni di croci sovrapposte sono un magma di voci che gridano richieste, dolore, disperazione… niente che appartenga alla delega dogmatica di una religione come quella cattolica.

Ecco la collina, con un sentiero stretto che la attraversa. Le croci si arrampicano l’una sull’altra e circondano il visitatore. Vi sono croci di tutte le dimensioni: croci che pendono da croci, croci che sorgono ai piedi di altre croci… e in alcune di esse è incastrata una nicchia dove appare la rappresentazione locale del Cristo: seduto, le gambe rachitiche e una grande testa sorretta da una mano come il “Pensatore” di Rodin. È afflitto. Dicono che sia perché lo tormentano le preoccupazioni per le sorti dell’umanità.

Qui gli occhi vedono solo croci e nella mente riecheggia ossessivamente una sola parola: “croci”. Il legno, anche nel caso degli esemplari più commerciali, come di quelli lavorati con cura, preziosi, lucidati e argentati, finisce prima o poi spellato dagli agenti atmosferici che livella tutto a un’unica sostanza: il risultato della corrosione ha il colore grigio e opaco della cenere. Assume la consistenza sfibrata di una stoppia battuta e poi asciugata dal vento.

Le croci convergono verso il visitatore, pendono su di lui, gli si stringono addosso… Milioni di croci, ognuna legata all’azione di una persona che l’ha infilata nel terreno o appesa a un’altra più grande o gettata direttamente in mezzo a un cespuglio di altre. È facile immaginare i piccoli schianti nel silenzio notturno di questo posto desolato, di croci che cadono improvvisamente. Nella testa risuona il rumore di un’attività incessante. La collina è animata, nutrita da gesti che poco hanno a che fare con la devozione e molto con speranze e rivendicazioni, inghiotte le croci nella terra grassa e nera, rivoltata dai lombrichi che, instancabili e voraci, la rimestano senza sosta, fino a farle sue. Amalgama i desideri, le implorazioni, trascinandole nel buio caldo e umido, precipitandole in un cosmo pagano dove le speranze perdono l’essenza aleatoria della fede e acquistano una concretezza sotterranea e minerale. È un purgatorio trionfante, una scorciatoia per un’eternità oscura.

Un fiumiciattolo lento e curvo chiude il versante opposto della collina, stabilendone i confini, impedendole di andare oltre, pronto a inghiottire le croci che si staccano da quella foresta compatta mentre con le sue acque ne alimenta le radici.

La collina si muove restando immobile, scossa da un fremito invisibile, si insinua nel visitatore con le sue emanazioni. Croce tra le croci.

timing: 15 ottobre 2010 - foto: courtesy A. Ruchat