La maggior parte del cielo è occupata da nubi squadrate e solide come muraglie rovesciate. Qual è la ragione per cui si prova sempre il bisogno di descrivere le nubi, la pioggia, il cielo… le cose che stanno su in alto e che, pur con un infinito numero di variabili, rimangono in fondo sempre le stesse? Deve essere a causa del loro potere di influenzare lo stato d’animo. Sorprendente pur essendo ogni volta prevedibile. Le muraglie grigie corrono veloci lanciando una pioggia rada, sottile e penetrante. Il sito della Collina delle Croci è anticipato da un piccolo anfiteatro composto di bancarelle allestite in una struttura in muratura e da un negozio di souvenir, al centro si apre un piccolo tunnel che introduce al lungo camminamento di devozione in mattoni grigi fiancheggiato da lampade basse. La terra attorno, scura e morbida, rigurgita armate di lombrichi che vengono a contorcersi sui mattoni. Ogni volta che si apre uno squarcio nella muraglia lassù, la luce penetra dorata, tagliente negli occhi come una lama. Pioggia o sole, bisogna camminare a testa china.
La collina è piccola, circoscritta, ogni croce ambisce a un indefinibile centro… le croci si accalcano per raggiungerlo, elementi di un’ipotetica folla impazzita. Il depliant multilingue che vendono nelle bancarelle spiega in un italiano approssimativo che lì sta la speranza e la fede indomita del popolo lituano. È vicino al villaggio di Jurgaiciai, nel distretto di Siauliai. Luogo di miti e leggende, viene considerata anche monumento archeologico; si dice vi sorgesse un antico castello di legno a difesa del territorio lituano contro fantomatici “cavalieri Portaspada” (forse si riferisce ai cavalieri dell’Ordine Teutonico che occuparono la Samogizia). Ipotesi confermata dal ritrovamento di un sentiero di pietre di calce, gioielli di ottone, armi e ceramiche interrate risalenti a un periodo che va dall’anno Mille al XIV secolo. In occasione delle rivolte del 1831 e del 1863 cominciarono ad apparire le prime croci per le vittime del dominio russo dello zar Nicola I, morti e sepolti sul posto. I russi le estirpavano e nottetempo i lituani le ripiantavano. Successe la stessa cosa dopo la Seconda guerra mondiale, finché nel 1961 i Sovietici spianarono la collina per la prima volta. Le croci non erano un segno di devozione ma il simbolo dell’affermazione dell’identità nazionale di un popolo.
Il 7 settembre 1993 è venuto qui papa Giovanni Paolo II e ha rivendicato per il luogo una natura religiosa, cristiana e cattolica. Ma qui si respira un’aria diversa: la terra è viva, pulsante, milioni di croci sovrapposte sono un magma di voci che gridano richieste, dolore, disperazione… niente che appartenga alla delega dogmatica di una religione come quella cattolica.
Ecco la collina, con un sentiero stretto che la attraversa. Le croci si arrampicano l’una sull’altra e circondano il visitatore. Vi sono croci di tutte le dimensioni: croci che pendono da croci, croci che sorgono ai piedi di altre croci… e in alcune di esse è incastrata una nicchia dove appare la rappresentazione locale del Cristo: seduto, le gambe rachitiche e una grande testa sorretta da una mano come il “Pensatore” di Rodin. È afflitto. Dicono che sia perché lo tormentano le preoccupazioni per le sorti dell’umanità.
Qui gli occhi vedono solo croci e nella mente riecheggia ossessivamente una sola parola: “croci”. Il legno, anche nel caso degli esemplari più commerciali, come di quelli lavorati con cura, preziosi, lucidati e argentati, finisce prima o poi spellato dagli agenti atmosferici che livella tutto a un’unica sostanza: il risultato della corrosione ha il colore grigio e opaco della cenere. Assume la consistenza sfibrata di una stoppia battuta e poi asciugata dal vento.
Le croci convergono verso il visitatore, pendono su di lui, gli si stringono addosso… Milioni di croci, ognuna legata all’azione di una persona che l’ha infilata nel terreno o appesa a un’altra più grande o gettata direttamente in mezzo a un cespuglio di altre. È facile immaginare i piccoli schianti nel silenzio notturno di questo posto desolato, di croci che cadono improvvisamente. Nella testa risuona il rumore di un’attività incessante. La collina è animata, nutrita da gesti che poco hanno a che fare con la devozione e molto con speranze e rivendicazioni, inghiotte le croci nella terra grassa e nera, rivoltata dai lombrichi che, instancabili e voraci, la rimestano senza sosta, fino a farle sue. Amalgama i desideri, le implorazioni, trascinandole nel buio caldo e umido, precipitandole in un cosmo pagano dove le speranze perdono l’essenza aleatoria della fede e acquistano una concretezza sotterranea e minerale. È un purgatorio trionfante, una scorciatoia per un’eternità oscura.
Un fiumiciattolo lento e curvo chiude il versante opposto della collina, stabilendone i confini, impedendole di andare oltre, pronto a inghiottire le croci che si staccano da quella foresta compatta mentre con le sue acque ne alimenta le radici.
La collina si muove restando immobile, scossa da un fremito invisibile, si insinua nel visitatore con le sue emanazioni. Croce tra le croci.
timing: 15 ottobre 2010 - foto: courtesy A. Ruchat
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