giovedì 21 febbraio 2013

PICCOLE APOCALISSI

venti giovani visionari e un normalizzatore poco cresciuto




Nel maggio del 2011 ho avviato un progetto di collaborazione con i bimbi della prima A della scuola elementare Armandi Avogli di via Saragozza a Bologna. Il lavoro si è sviluppato attraverso una serie di incontri che ha portato alla realizzazione di alcune opere di diverso genere e formato.

L’idea che mi ero fatto all’inizio era che avrei affrontato la forza originaria della loro creatività per incanalarla in un progetto compiuto. Partivo dal presupposto che tutti abbiamo sempre disegnato nell’infanzia; il disegno è infatti una delle attività più spontanee e innate del nostro curriculum che con l’età la maggior parte di noi inibisce e trascura per motivi contingenti spesso legati a un percorso di studio e lavoro o perché paragona i propri manufatti a modelli qualitativi che appartengono a un’ideale “sfera dell’arte” (che si fa forte di un suo supposto “professionismo”). Ogni adulto che non disegna è perché a un certo punto della sua vita ha smesso di farlo, mentre un bambino nel suo rapporto con il disegno ha la naturalezza e la complessità di chi mescola immagini mentali e realtà in un impasto unico che è rappresentazione e racconto del mondo così come lo percepisce.

Da qualche tempo porto avanti un percorso di esplorazione di territori segreti che si snodano all’interno della mia mente. Disegni semiautomatici, con una vocazione vagamente surrealista, che vanno a recuperare i detriti più reconditi della psiche, esseri nati da apocalissi portatili o che risiedono in inferni che francamente è difficile temere. Era come usare l’aspirapolvere negli angoli dell’inconscio, o estirpare una carie da un dente… Un’asportazione che lascia un piacevole senso di pulizia, dando un’impressione di compiutezza senza colpa. E non a caso pochissimi degli esseri nati da quelle divagazioni di una penna a sfera su un foglietto di carta sono veramente minacciosi: sono amichevoli, accettabili, e sicuramente terapeutici. Mi sono chiesto allora se quel procedimento si poteva estendere ad altri, se il benessere e la piacevolezza potevano essere condivise.

E i bambini, non ancora infettati dai timori artificiosi, non primari, che ci perseguitano come esseri socialmente strutturati, avrebbero dato il via a un’apocalisse e spalancato i cancelli di inferni più sostanziali e veri? C’era – c’è – l’abisso in loro?

Forse, a cose fatte, si può dire che a sei anni sono già troppo vecchi, ma sono sicuramente più vicini di un adulto – nel senso anagrafico del termine – alla linea di confine della nascita e a un territorio archetipico meno contaminato dalle suggestioni della cultura e del gusto. Quindi andavano preparati a concentrarsi sul lavoro e a usare gli strumenti per farlo, stimolandoli a un avventuroso viaggio di scoperta.

Andando controcorrente, è stato necessario spiegargli che non ci sono disegni belli o brutti, ma che il disegno ha un valore in quanto espressione e manifestazione di qualcosa di unico che appartiene a chi lo fa. Quel valore per cui molto spesso loro regalano le loro opere con trasporto come segno d’affetto. Un disegno è in fondo una parte di sé. E che tutto ciò che emerge da un disegno ha diritto di esistere. Un disegno può essere un punto di domanda o un’apparizione inaspettata ma non può fare male. In un certo senso un disegno è sempre bello.

Detto questo anche i mostri rintanati nei loro sogni non erano poi così terribili se potevano essere disegnati, forse erano solo compagni di una diversa realtà… Figure che si sottraggono al giudizio.

Ho mostrato loro il mio modo di fare e i miei risultati invitandoli a non imitarmi ma a sentirsi liberi come avevo cercato di esserlo io. Visto che non avevano mai usato prima una penna a sfera, abbiamo prima fatto alcune prove a matita su piccoli foglietti di newsprint di 14 cm x 10.

Poi abbiamo messo da parte i foglietti per attaccare a terra un foglio di carta da scenario alto un metro e mezzo e lungo più o meno tre… ed è iniziato il vero e proprio scatenamento.


Per la colorazione ho fatto seguire ai ragazzi lo stesso procedimento naturale che avevo già sperimentato sui miei mostri dell’apocalisse: materiali naturali, soprattutto cibo preso dalla mensa, frutta, olio e anche erba… Il processo è diventato un vero marasma, con lanci di tè e tisane, frutta e ortaggi maturi schiacciati sulla carta, erbacce strappate dal cortile e strofinate. Un’opera gestuale, nata dalla collaborazioni di venti personalità differenti (a volte in contrasto tra loro nel tentativo di mantenere un’area riconoscibile ed estranea all’ingerenza altrui…). Strappi e lacerazioni erano previsti e si sono puntualmente verificati…

L’inchiostro della penna a sfera è particolarmente soggetto a decolorazione quando esposto alla luce diretta, per non parlare dei colori di origine naturale. Una volta terminato il processo di colorazione il grande foglio era bagnato e sgocciolante. La raccomandazione ai maestri era stata quindi di esporre brevemente il foglio al sole, in cortile vicino alla finestra della classe, per asciugarlo e di ritirarlo presto. Così non è stato. Se lo sono dimenticato fuori, e quel lavoro di giorni, appena finito, si è sbiadito velocemente.

A questo punto era difficile ricostruire il percorso fatto per arrivare a del materiale che potesse essere esposto senza un mio personale intervento. E sarebbe stato disonesto rielaborare i disegni senza dichiararlo esplicitamente. Del resto tutto il progetto era nato da un tentativo di collaborazione… Così ho ripreso i piccoli schizzi “preparatori” a matita e li ho interpretati e riprodotti secondo le consuete modalità con cui avevo lavorato ai miei inferni e alle mie apocalissi. Poi ho cercato di recuperare la forza originaria del grande pannello intervenendo come potevo, riportando brutalmente in luce i disegni svaniti.

Il risultato è la testimonianza di una collaborazione in cui si tenta di mantenere in trasparenza la “luccicanza” dei bambini, ripristinando le loro piccole apocalissi dietro il velo normalizzatore della mano di un adulto che al loro fianco ha provato a dimenticarsi di essere tale.














 

lunedì 4 giugno 2012

ATTRAVERSAMENTI




Un Batman con un’evidente debolezza per l’alcol informa il commissario Gordon e l’amico Fredric Brown (omonimo dello scrittore di noir e fantascienza) sui progressi con la lingua francese di Dick Grayson, alias Robin, che è andato a studiare ad Andover, fuori Gotham. Si dilungano con stupide battute in francese mentre incombe la minaccia del Joker. Impreparato ad affrontare il nemico, Batman viene sconfitto dal suo arcinemico che gli sfila la maschera svelando la sua identità segreta, per Bruce Wayne è finita.
Non si tratta di un fumetto di Batman ma di un racconto di Donald Barthelme, uno dei più importanti scrittori postmoderni statunitensi, contenuto nella sua antologia del 1964 Come Back, Dr. Caligari, e ispirato al numero 148 del 1962 di Batman da cui riprende anche il titolo, “The Joker’s Greatest Triumph!”, ma non la fine, dove un lampo di luce proveniente dal faro dell’aeroporto salva Batman dalla rivelazione.
L’operazione di straniamento consiste proprio nello spostare la narrazione dall’epica supereroistica al contesto quotidiano, fino alle sue estreme conseguenze, come se la realtà rappresentata nelle vignette appartenesse a un bizzarro mondo alternativo.
Un racconto per certi versi cruciale per definire i percorsi intrecciati tra fumetto e letteratura, almeno per quanto riguarda il comic book, e che anticipa e incontra, per certi versi, l’operazione del così detto “revisionismo” supereroistico iniziato da Alan Moore con Miracleman e portato avanti con supereroi più o meno celebri, da Superman alla saga di Watchmen, dove l’idea è quella che tutto quanto appare attraverso le vignette sia la documentazione parziale della vita in un universo, con storia e regole che divergono dalle nostre, in cui gli eroi di carta sono persone vere.
Michael Chabon, nel suo romanzo The Amazing Adventures of Kavalier & Clay, premio Pulitzer 2001, ha ricostruito l’età dell’oro del fumetto di supereroi, la così detta Golden Age, attraverso due personaggi fittizi ispirati a Jerry Siegel e Joe Shuster, i creatori di Superman. Per Chabon sembra esserci il mito, e non solo, del Golem all’origine di tutto, partendo dalla tradizione mitteleuropea e da quella ebraica in particolare. Un crossover tra realtà storiche e finzione, che infonde nel lettore la sensazione di un mondo alternativo, ripreso subito, con modalità e invenzioni differenti, anche da altri scrittori americani tra cui Jonathan Lethem con The Fortress of Solitude e Tom De Haven con It’s Superman!
Nella finzione del romanzo di Chabon il successo di Kavalier e Clay si deve soprattutto alla creazione del personaggio dell’Escapista, supereroe impegnato nello sforzo bellico contro le forze dell’Asse, ripreso in seguito in due miniserie in formato comic book, in cui, insieme a quelle di autori di fumetti, appaiono storie dello stesso Chabon e di un altro scrittore di punta statunitense, Glen David Gold.
Sono molti e di molteplici nature i transiti da fumetto e letteratura (e viceversa) e riguardano autori, personaggi, chiavi interpretative… Negli anni Trenta del secolo scorso Dashiell Hammett si trovava a scrivere naturalmente le strisce dell’agente segreto X-9 disegnate da Alex Raymond così come alcuni autori di fantascienza tra cui Edmond Hamilton, Otto Binder e Alfred Bester scrivevano storie di Superman, Legion of Super-Heroes o Justice League… perché i lettori di riferimento (in genere giovani) erano gli stessi della loro narrativa, ragazzini abituati a un consumo di letteratura popolare, dove i generi e i temi frequentati dai pulp magazine e dai fumetti spesso si sovrapponevano. E non è un caso che un prosecutore del pulp come Joe Lansdale abbia affiancato alla scrittura dei suoi romanzi quella di fumetti tra cui alcuni western-horror e in particolare una miniserie dedicata al pistolero sfregiato Jonah Hex. Una tradizione costellata di trasposizioni ma anche di “tie in”, ovvero innesti e ampliamenti dell’universo narrativo con nuove storie a fumetti di personaggi già noti letterariamente dal Tarzan di Edgar Rice Burroughs all’enigmatico The Shadow, fino a Nero Wolfe, Maigret, Sherlock Holmes, James Bond… Casi spesso trasversali, personaggi impegnati in diversi media, a partire dalla creazione letteraria, dalla serialità radiofonica e televisiva fino al cinema.
Anche gli adattamenti a fumetti hanno un percorso più o meno illustre. Negli anni in cui il fumetto è stato visto come uno dei mezzi di intrattenimento privilegiati di un pubblico giovanile, si sono moltiplicati i classici della letteratura riletti a fumetti intesi come strumento didattico e ancora oggi i maggiori editori del fumetto francese proseguono a produrre volumi tratti da classici per ragazzi tanto da vantare ognuno di essi la sua versione di titoli di Dickens, Stevenson, Twain, London… o delle fiabe di La Fontaine. Attività che in alcuni casi, grazie all’incontro con un fumettista ispirato, dà vita a titoli che non sono semplicemente al servizio dell’originale, ma che creano un’esperienza di lettura del tutto autonoma come la pluripremiata versione di The Wind in the Willows di Kenneth Grahame, realizzata da Michel Plessix.
Ma cosa rende questi adattamenti memorabili? Certamente la non sudditanza rispetto all’opera originale, l’incontro tra forti personalità, grandi autorialità in entrambi i versanti creativi. Si tratta in definitiva della capacità di evitare, grazie allo stile grafico e all’uso dello specifico del linguaggio fumettistico, ogni passività verso l’originale. Esempi in questo senso ce ne sono molti anche nella storia del fumetto italiano: Gianni De Luca si è confrontato con i testi del teatro shakespeariano con due opere, Amleto e il Romeo e Giulietta, che ancora oggi sono un esempio esplorazione delle potenzialità diegetiche del linguaggio del fumetto; Walter Molino e Rino Albertarelli hanno evidenziato la follia sanguinaria del ciclo western di Emilio Salgari; Dino Battaglia ha rafforzato l’impalpabile atmosfera di ambiguità dei classici dell’inquietudine, da Poe a Maupassant; Sergio Toppi ha ricreato nel nero del suo tratteggio il mistero delle fiabe orientali; Manara e Magnus hanno messo in scena la complessità di testi della tradizione cinese con un occhio alla modernità mentre Guido Crepax ha scomposto i classici dell’erotismo con il suo montaggio analitico… Queste opere si differenziano da qualsiasi “riduzione” perché l’apporto del disegnatore non è una semplificazione dell’opera originaria, ma, anzi, ne moltiplica l’immaginario, rendendolo ancor più penetrante, perdurante. La bibliografia di Alberto Breccia è un esempio di tecniche e approcci differenti, di una riflessione sul rapporto tra fumetto e letteratura durata una vita e occasione di autentici capolavori. La sua rilettura dei Chtulhu Mythos di H.P. Lovecraft (ciclo narrativo tra i più adattati e ampliati diventato ormai un tema nell’ambito delle interpretazioni a fumetti) è, di racconto in racconto, un susseguirsi di tecniche e di sperimentazioni, dal collage all’espressionismo astratto, nel tentativo di avvicinare il lettore alla visione degli orrori indicibili descritti dal solitario di Providence. Il maestro argentino dichiarò più volte la sua incapacità di sottrarsi al fascino generato dalla lettura di un romanzo o di un racconto, alla necessità di produrne una sua versione disegnata, a suo modo più sintetica, essenziale e penetrante dell’originale (il che significava mantenere o addirittura moltiplicare l’implicito e gli elementi di suggestione del racconto con immagini capaci di latenza). È rilevante quanto riportato nel volume intervista Ombres et lumières a proposito della versione di Informe sobre los ciegos di Ernesto Sabato: dopo avuto il via libera e aver prodotto la sceneggiatura, Breccia la sottopose allo scrittore che, vedendo i suoi testi ridotti e alcune scene soppresse, protestò ritirando l’autorizzazione finché non fossero stati reintegrati interamente (salvo poi riflettere e ripensarci). Il trasferimento di una storia da un linguaggio a un altro ne altera inevitabilmente la struttura e questo è sempre stato il problema e il pregio degli adattamenti a fumetti ben riusciti e anche il limite nel rapporto tra scrittori e fumettisti. Testimonia della difficoltà di accettare le regole di quella che è stata considerata per tanto tempo un’arte minore, un artigianato dall’uso veloce.
L’idea di graphic novel, ovvero di romanzo grafico, definizione coniata da Will Eisner nel 1978, in occasione del suo passaggio da autore seriale noto per il personaggio di Spirit, il detective creduto morto, a quello di narratore di storie di quartiere e di famiglie e sdoganata nel 1989 dal successo di Maus di Art Spiegelman, ha certamente affrancato il fumetto d’autore dal sospetto di essere un’arte inferiore e quindi dalla diffidenza degli scrittori. Uno degli adattamenti che hanno segnato la svolta in questo passaggio è sicuramente quello di City of Glass di Paul Auster, ridotto a fumetti da Paul Karasik alla sceneggiatura e David Mazzucchelli ai disegni nel 1994, dove il quesito gnostico del romanzo viene amplificato da un lavoro di sintesi grafica e narrativa in sottrazione. Sono molti oggi gli scrittori che collaborano a diverso titolo con autori di fumetti, da chi si limita a rendere disponibile le proprie opere fino ai casi in cui viene prodotto un soggetto originale, rompendo un tabù che riguardava la possibilità di considerare il fumetto una lettura adulta. In Italia Niccolò Ammaniti, Giancarlo De Cataldo, Massimo Carlotto e Gianrico Carofiglio hanno contribuito con storie originali diventate altrettanti graphic novel per editori maggiori, non specializzati in fumetto.
Alla rivoluzione nella percezione del fumetto popolare hanno contribuito in maniera determinante gli sceneggiatori britannici, a cominciare dal già citato Alan Moore, il cui contributo “adulto” a un genere destinato a un pubblico giovanile come le serie supereroistiche ha dato coscienza ai lettori di trovarsi di fronte a una rottura delle barriere tra cultura alta e cultura bassa. La complessità di temi, di risvolti filosofici e di riferimenti all’attualità, oltre che la ricerca di innovazione del linguaggio sin dal “decoupage”, in saghe come quelle di Swamp Thing, la creatura della palude, Watchmen, V for Vendetta o Prometea, per citare alcuni esempi significativi, ha portato il fumetto seriale, e i suoi lettori, a sentirsi orgogliosi della propria identità, rivendicando le potenzialità di una narrazione che non è più archiviabile come solo intrattenimento. Moore ha confermato poi le sue capacità letterarie scrivendo graphic novel tra cui From Hell, sulla Londra d’epoca Vittoriana di Jack lo Squartatore, o un romanzo complesso ed esoterico come Voice of the Fire.
Un discorso analogo riguarda l’altro sceneggiatore inglese protagonista di un intenso scambio tra i due linguaggi: Neil Gaiman. Anche se gli inizi del suo contributo alla produzione popolare ricalcano le orme di Moore, riprendendo in mano un vecchio personaggio dimenticato come Sandman, opera una piccola rivoluzione. Sandman è il Signore del Sogno, che Gaiman rende trasparente, adatto ad attraversare diverse dimensioni della commedia umana. Sandman di Gaiman è una vera e propria serie, sintonizzata sui gusti di un lettore che ascolta musica “gothic” (o “dark”, a seconda dei punti di vista), e che comincia a fare suo tutto ciò che gli corrisponde: da Shakespeare (che compare oltre che con le sue opere anche in persona nel fumetto) al confronto con le “faerie tales” fino alle versioni iconiche e non della Morte… Un apparente prodotto di nicchia si è rivelato toccare così a fondo le origini leggendarie dell’immaginario fantastico da ottenere un riscontro globale colpendo ogni tipo di lettore. Senza più divisioni tra medium, Neil Gaiman è diventato uno degli autori di riferimento della letteratura contemporanea che slitta tra lettori adulti e adolescenti, in quel genere privo di demarcazioni raccolto sotto la definizione insufficiente di “young adults”.
Fumetto e letteratura non smettono quindi di interagire, di “rubarsi” storie e autori a vicenda, ma quanto in passato poteva essere archiviato in un ambito destinato a un pubblico ghettizzato e considerato intellettualmente minoritario oggi è entrato definitivamente in una fase adulta. 

martedì 17 gennaio 2012

RACCONTI DA PAZ

Dove l'indisciplina si sublima nell'ossessione

Con i suoi maglioncini corti e stretti, spesso a rombi, il collo a V e portati a pelle, con i capelli arricciati, con il suo disinteresse per lo stile e il volto di irregolarità ben equilibrate che apparteneva a una periferia indomabile… cosa ci faceva Andrea negli anni Ottanta?

Era andato avanti e indietro nel tempo, incoercibile. Sbucava direttamente dagli anni Settanta e non la smetteva mai di disegnare su qualsiasi superficie e in qualsiasi occasione. Forse perché quel decennio non era il suo, l’eternità dei suoi disegni e del suo immaginario appartenevano al precedente. Si sentiva fuori posto, viveva più dentro che fuori.

Non aveva la vocazione dell’insegnante; quando non dimenticava l’orario delle lezioni, appariva alla scuola “Zio Feininger per spiegare agli allievi come diventare autori di fumetto impugnando la katana di legno. Arrivava direttamente dalle lezioni di kendo (che avrà frequentato al massimo per qualche mese). Pretendeva di dimostrare che “la via della spada” era giusta anche per chi voleva intraprendere quella dell’autore di fumetti. Cercava di smentire se stesso che non sapeva nulla della disciplina: la sua forza era una giostra di ossessioni in cui disegnare e tutto il resto erano funzioni imprevedibili di un irrequieto corpocervello.

“Come ci siamo conosciuti?” chiede dopo la lezione, diretti in osteria per una birra, distanti qualche metro dai ragazzi che si sono accodati.

“Non me lo ricordo,” in effetti era così, anche se era passato solo qualche mese. “Forse a Frigidaire. Quando sono arrivato c’era fuori Tanino che bestemmiava, Vincenzo che cercava di calmare Massimo perché Filippo sparava a zero sulle sue storie e Stefano che cagava dentro il cesso. Con le pareti di legno si sentiva tutto dentro la redazione: odori e rumori. E tu…”

“Non c’ero.”

“Hai ragione. Lo sai che la prima volta che ho portato a vedere i miei disegni al Male mi dissero di mettermi in contatto con te, visto che abitavi a Bologna?”

“Ma dai?”

“Non te lo ricordi nemmeno tu.”

“Vero.”

A quel punto, pur essendo riemerso dalla foschia mentale il primo incontro, nessuno dei due ne fa parola. Andrea è imprevedibile: gentile, affabile, cortese, nasconde qualcosa di meschino che ha a che fare con le sue debolezze. Come quando ha chiesto a una tua amica perché cazzo tu eri in quel gruppo che faceva fumetti, design, performance… e lui, che era sicuramente un disegnatore più bravo di te, non era stato chiamato. “Perché tu sei rozzo e ignorante e lui no,” gli aveva risposto lei poco prima di andarci a letto. “Accontentati, che te ne importa?”

Andrea difficilmente si negava delle esperienze. E credeva sempre di essere più amato di chiunque altro. “Ehi, di’ un po’,” abbassa la voce arrivando sulla soglia dell’osteria.

“Sì…?”

“Non c’è…?” Fa il nome di una delle allieve, tu non sai neanche chi sia.

“Perché?”

“Sudaticcia, più grande delle altre. Trenta.”

“Andrea, non lo so. Qual è il problema?”

Sorride. Il suo sorriso sono più sentimenti messi insieme, contrastanti tra loro; è sincero ma contiene una vertiginosa tristezza: è una smorfia di dolore, è la dichiarazione che se ti lascerai sedurre dalla perfezione apparente delle sue labbra un giorno la pagherai condividendo la sua parte oscura. Ti attrae nella sua tela, spartisce il suo dolore. È uno di quei sorrisi che non illuminano il viso: lo nasconde dietro un paravento d’ombra. Se ti sporgi per sapere cosa c’è dietro sei fottuto. “Accelera, se no ci sentono.” Si guarda alle spalle come se vedesse gli altri solo adesso. Saranno una mezza dozzina, non di più. “Non c’è…”

“Dai, racconta.”

“Insisteva. Non sai quanto. Non so neanche chi cazzo le ha dato il mio numero di telefono. Mi faceva le telefonate.”

“Ma no!” Solo lui può fare ironia su di sé, mai immaginerebbe che ti azzardi.

“Mi chiama, fa ‘ciao’ e poi zitta. Non so che accidenti vuole.”

“Sesso telefonico.”

“Cazzo ridi. Non gliene frega dei fumetti. Fa l’infermiera.” Una pausa. “M’attizza l’infermiera.”

“Perverso.”

“No, ma che dici. È l’idea. Anzi, è la parola: infermiera.” Arrota le erre.

“Allora che paura hai?”

“Aspetta, non è finita… La settimana scorsa è passata a casa. Il campanello squilla, era lei.”

“Chi le ha dato l’indirizzo?”

“Forse io.”

Magari anche il numero di telefono, pensi.

“L’ho fatta salire, mica potevo lasciarla lì. Voleva scopare. Non sai le cose che mi ha detto. Sembrava pazza. Tremava. Mi abbracciava… E sudava come un maiale.”

“E tu?” Domanda inutile.

In certe fasi dei suoi racconti Andrea ritrova una perfetta identità con i suoi disegni: assume le stesse posizioni dei personaggi (del suo personaggio preferito: se stesso), i suoi movimenti compensano tutto ciò che nei fumetti non si vede e il tono di voce è esattamente quello con cui vanno letti i suoi testi. A volte ha la bassezza e la grandiosità di Eduardo.

“Cosa potevo fare?” Alza le mani. A questo punto tu sparisci, il racconto è autosufficiente, non ha bisogno di qualcuno che ascolti. “Prova a baciarmi e la schivo. Cerco di svincolarmi. Vado a preparare un caffè. Lei va in bagno. Torno e non la trovo, non c’è più, sparita. Invece è in camera da letto. Mi viene un soprassalto, quasi svengo.” Si tocca il petto. “È dentro il letto. Nuda.”

Sei assalito dall’immagine dell’appartamento da studente fuori sede con i mobili di recupero, le vecchie mattonelle del pavimento, le tendine fornite dalla mamma, i gatti di polvere e l’immagine di un letto che sembra uscita da una brutta commedia erotica italiana. Finisci per riconoscere la ragazza per il senso di patetico con cui l’ha descritta. Lui la segue sotto le coperte come se obbedisse al destino.

“Era flaccida. Magra, flaccida e sudata. Peccato che non te la ricordi ma immaginati una che balbetta con un terribile accento bolognese e comincia a dire porcate. Poi,” con indice e pollice della destra mima come se estraesse qualcosa dalle labbra per riporlo da una parte, “tira fuori una mentina dalla bocca e la mette in un fazzolettino di carta che aveva appoggiato sul comodino.”

Sa bene che ha mimato un vecchio che si sfila la dentiera, ed è così abile nel disegnare l’arco del gesto che pare di vedere un filo di saliva che segue il percorso delle dita.

“E poi?”

“Col cazzo che l’ho baciata.”

Non chiedi altro.

Poco dopo siete a un tavolaccio, bevete una birra. Parlate con i ragazzi dei fumetti di Moebius, Liberatore e Pratt. Su una tovaglietta fa alcuni disegni per loro. Parla con le sue pause strategiche, i movimenti repentini della testa e delle spalle. Ti chiedi ingenuamente come mai sia venuto a raccontare una storia così intima proprio a te. Non ti considera, neanche si ricorda quando vi siete conosciuti.

Andrea era uno che amava la divulgazione.

venerdì 1 luglio 2011

FIRST SKIN





Prove di skin per iPhone realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm10x14 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana.

lunedì 30 maggio 2011

PETER BICHSEL: ASPETTARE E BASTA


Lei ha scritto che Sherwood Anderson è il grande poeta della noia della provincia. Si può dire lo stesso anche di lei?

Suppongo di sì. Sherwood Anderson è il padre della letteratura americana moderna, anche di Hemingway che probabilmente è stato, dal punto di vista della costruzione del racconto, il suo migliore allievo, Queste short stories che finiscono senza colpi di scena, persino nel caso di racconti avvincenti, come “The killers” di Hemingway, ci si accorge solo alla fine che è un racconto della noia. Raccontare è avere a che fare con il tempo, e il tempo è anche la sua durata, in tedesco è bellissimo, la noia si chiama Lange Weile, il momento lungo, in svizzero tedesco si dice addirittura il tempo lungo e significa anche nostalgia. Senza noia non c’è nostalgia e scrivere ha a che fare con la nostalgia. Probabilmente Sherwood Anderson c’è stato sempre, Omero del resto era uno Sherwood Anderson.

La sua ultima raccolta uscita in italiano s’intitola Quando sapevamo aspettare. Dietro questa frase c’è molta nostalgia del passato. Cosa rimpiange di ciò che non è più?

Questa faccenda di ciò che oggi non è più, è una vecchia storia. In realtà era così già duemila anni fa. Questa storia della nostalgia non riguarda solo il Diciannovesimo secolo o il Ventesimo, riguarda la storia di tutta l’umanità. L’idea che la vita che abbiamo potrebbe essere diversa, anche l’utopia politica che ci fa sperare in un mondo migliore, più decente più umano può facilmente diventare l’idea che un tempo un mondo così ci fosse davvero, Dio ha creato un mondo meraviglioso e noi l’abbiamo rovinato: per quanto questa idea mi piaccia, so che non corrisponde al vero.

Lei dice che non esistono più le comunità perché sono venuti a mancare i rituali, quella di oggi è dunque una comunità senza identità?

Prendiamo la Svizzera. Un paese molto fiero della sua cultura quadrilinguistica. In realtà non ha mai avuto una cultura multilinguistica, le quattro lingue non hanno mai davvero convissuto, al contrario, le diverse culture sono sempre state lì, l’una accanto all’altra, ben separate tra loro. Non siamo l’esempio di una cultura comune tra le lingue; siamo invece l’orribile esempio di una cultura smembrata. L’identità della Svizzera: cos’è rimasto? Forse una nostra identità è l’esercito, che alla fine serve solo per questo, se avessimo un’dentità culturale non ci servirebbe l’esercito. E l’altra identità è la prosperità. Ci sono paesi poveri che pur essendo poveri conservano un’identità, il Portogallo mi sembra che ce l’abbia un’identità. Una Svizzera povera – e una Svizzera povera non è del tutto improbabile – non credo che esisterebbe più, perché mancherebbe la sua forma sostanziale di identità: la ricchezza. E a proposito della società svizzera, se penso a Soletta, il mio paese, quand’ero giovane, circa quarant’anni fa la società solettese mi sembrava unita c’erano i grandi ristoranti, dietro sedevano i ricchi a metà la media borghesia e davanti gli ubriaconi, e la sera tardi le diverse parti si mescolavano. Oggi questi posti non ci sono più, non ci sono più le osterie e quelle che rimangono la sera non sono più piene zeppe. Nel frattempo è sorta la società dei party, la società dei barbecue: dieci, quindici, venti persone che per tutta la vita si incontrano davanti a quella stupida griglia dove arrostisono carne fino a disintegrarla. Le persone oggi vivono tutte nei ghetti. Ghetti dei ricchi, dei mezzi ricchi, dei mezzi poveri, dei poveri, siamo diventati una società ghettizzata e questo ormai non si può più cambiare.

Nel suo libro l’unico accenno indiretto al mare è legato alla barca a vela e al periodo in cui Alinghi di Bertarelli vinceva la Coppa America. Lì lei si chiede, la Svizzera nazione di velisti? Scusate ma da questa nazione io mi ritiro.

Insomma orologi, cioccolata e un eroe che tirava alle mele, per dirla con Max Frisch: è questa la Svizzera di Peter Bichsel?

Sa, credo che tutta questa storia della cioccolata, degli orologi, delle mucche e della libertà, non sia più da tempo l’immagine che hanno gli stranieri della Svizzera, ma purtroppo è l’immagine che abbiamo noi. Ho l’impressione che gli svizzeri non si siano mai fatti un’idea precisa del loro paese, se la sono sempre lasciata fornire dagli stranieri, e nel momento in cui gli stranieri non sono stati più così entusiasti della Svizzera, allora gli svizzeri sono tornati alla cioccolata e agli orologi. Quando Frisch fu additato dalla borghesia come “nemico numero uno dello Stato” il problema era proprio quello: Frisch si era fatto un’idea di questao Stato. E questo non va. Di cio che è grande non devi farti immagine alcuna, è così che dice la Bibbia, no?

Le stazioni, i treni sono luoghi dell’attesa ma anche luoghi di fuga. Lei è una persona molto concreta, ma anche sognatrice e visionaria, cosa pensa della morte?

Eh sì, l’ha presa larga, ma è giusto così. Cominciamo dalle stazioni, i primi italiani che venivano in Svizzera a lavorare dopo la guerra, il sabato e la domenica stavano alla stazione, stavano tutti alla stazione perché è il posto dove chiunque può sentirsi parte di un tutto: stranieri o non stranieri, si fa parte di un insieme. Io sto molto volentieri da solo ma non ho la minima tendenza a isolarmi, sto volentieri da solo tra la gente, tra molta gente e questo per me è la stazione. E poi c’è l’attesa, aspettare è qualcosa di meraviglioso, essere in attesa, una donna incinta aspetta un bambino, aspettare qualcosa, di nuovo la nostalgia, o aspettare e basta. Come il mio amico mortalmente malato che aspettava, non la morte, aspettava e basta. Far parte di un tutto significa: la mia morte per me è qualcosa di certo, è sicuro che morirò e la questione è solo quando.

Mi attengo a Cartesio che ha detto: tutti quanti devono morire, forse anch’io.

Ha scritto di aver letto molto soprattutto per il piacere della lingua. Perché allora ha scelto di scrivere in tedesco e non nel suo amato dialetto?

In primo luogo c’è un errore. Da bambino io non leggevo per via della bellezza della lingua ma per via delle lettere dell’alfabeto. Amavo le lettere, amavo questa cosa meravigliosa per cui con sole sei lettere si può avere un albero, un albero bellissimo, l’albero per eccellenza. Ora c’è il computer, prima c’era la macchina per scrivere, io non posso scrivere a mano, perché se scrivo a mano non vedo quante sono le lettere che ho a disposizione, sono le lettere, solo le lettere, che mi attraggono. Un tempo ero dipendente dalla lettura e potevo leggere qualunque cosa, persino cose che non capivo. Poi c’è il fatto di scrivere in tedesco e non in dialetto. Abbiamo un dialetto che vive senza le lettere dell’alfabeto e abbiamo la lingua ufficiale scritta che vive con le lettere dell’alfabeto. Uno svizzero tedesco quando parla il tedesco, anche se lo fa per professione, anche se è un attore, avrà sempre le lettere dell’alfabeto che scorrono davanti agli occhi. Inoltre si può scrivere soltanto in una lingua artificiale, in qualunque lingua si scriva, anche un dialetto, anche l’italiano, bisogna prima stabilire dei parametri, inventarsi un piano stilistico.

Per noi svizzeri tedeschi, rispetto al tedesco, la questione è molto semplice, siamo in una posizione ideale. Intanto il piano stilistico c’è già, l’elevatissima lingua tedesca, in secondo luogo c’è la questione dell’estraniazione, ne ha parlato anche Brecht, prima ancora di cominciare a scriverlo, per noi il tedesco risulta straniante: una lingua che non è straniera ma è lievemente estranea. Il tedesco ufficiale ci appare come un dialetto che non conosciamo bene.

Infine le chiederei perché ha scelto di scrivere, ma mi sembra quasi pleonastico…

Perché si scrive? Tutti pensano che sia una domanda stupida. Non è stupida affatto, è una domanda molto intelligente, ma è semplicemente una domanda a cui non si può rispondere. Forse tutto quello che si scrive non è nient’atro che un tentativo inutilizzabile di rispondere a questa domanda.


Intervista a Peter Bichsel di Giorgio Thoeni, RSI, 7 maggio 2011 (traduzione Anna Ruchat)

mercoledì 25 maggio 2011

APOCALISSE SETTE










Altri disegni dal progetto artistico "Apocalisse", realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm14x10 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana...

lunedì 23 maggio 2011

ESSI VIVONO


È l’unico zoo in cui gli animali pagano per stare in gabbia. L’utopia realizzata è il Salone del Libro di Torino, un luogo in cui il paradosso della cultura tenuta al guinzaglio si realizza con il consenso delle vittime. Solo i masochisti approvano le proprie umiliazioni. E gli editori godono di essere infilati al Lingotto, un posto che ha l’aspetto di un grande garage, dove il rumore di fondo è una sinfonia cacofonica che stordisce i visitatori nel giro di poche ore (la sua efficacia raggiunge l’apice con gli standisti costretti a rimanere dalle dieci del mattino alle dieci di sera per cinque giorni – e se non bastasse il venerdì e il sabato fino alle undici – pena una multa per inadempienza contrattuale). Il lunedì le scolaresche sciamano per le corsie trionfanti per aver schivato una giornata di scuola.

Il Salone del Libro di Torino è un lager in cui dalla Sala Rossa mandano a tutto volume, con casse audio poste all’esterno, un cabarettista locale mentre intrattiene liceali annoiati con battute stantie su Leonardo da Vinci. Un lager in cui per ironia della sorte il paese ospite è la Russia, con un padiglione che suscita rigurgiti bolscevichi per la sua bruttezza. Il direttore Ernesto Ferrero circola per le corsie piegato con un fascio di carte stretto sotto braccio e somiglia sempre di più a un Giulio Andreotti che ha abbandonato la politica (anche se cariche come le sue non sono esenti da un contesto politico, poteva evitarsi la reprimenda a Franco Cordero).

Sì, il Salone è un’istituzione inutile che dichiara non solo il crepuscolo della cultura in Italia e i soliti giochi di piccoli poteri destinati a ingrassare una casta (e non ci si chieda se di destra o di sinistra… ma quale “sinistra”?), perché la questione, se ci si occupa di fumetti, si rivela smaccata umiliazione. Il Salone del Libro di Torino deve delle scuse agli editori di fumetti per averli chiusi in un ghetto all’interno di un brutto zoo, per avergli inflitto la legge del lager. È paradossale che mentre tutti gli editori maggiori, medi o piccoli, snobbano il fumetto ma provano ad attrezzarsi con una loro collana di “graphic novel”, il Salone releghi chi ha interi cataloghi dedicati (e di qualità) in un recinto denominato “Comics Center”, confinato in un angolo chiuso da un’area dedicata alla musica in cui i visitatori provano tutto il tempo pianoforti e batterie e una piccola etichetta jazz mette a tutto volume a nastro continuo “Besame Mucho” (il tormento di “Besame Mucho” entra nella testa, accompagna gli standisti delle due aree all’uscita, penetra nei sogni e, in un loop inevitabile, sfuma al mattino sulle note che provengono nuovamente dallo stand dell’etichetta). La zona degli incontri del fumetto è sprofondata in una specie di angolo della vergogna a cui, giustamente, nessuno si azzarda ad avvicinarsi (tranne quando si insegna a disegnare Geronimo Stilton, che con i fumetti c’entra come Fabrizio Corona con il noir). Invisibilità a pagamento, neanche i visitatori che ti buttano le noccioline… anzi, l’unico posto dove puoi procurarti da mangiare e da bere è la catena Autogrill, che evidenzia quanto cibo e acqua siano preziosi nel mondo visto che una bottiglietta d’acqua costa un euro e trenta e per mangiare al self service bisogna accendere un mutuo in banca.

Dall’entrata del padiglione lo stendardo dell’Area Musica impalla esattamente quello del Comics Center, così da renderlo perfettamente invisibile. Del resto facendo una proporzione sulla metratura probabilmente gli stand fuori dall’area, in mezzo agli editori non discriminati, hanno un costo simile. Forse peggio del Comics Centre c’è solo l’“Incubatoio”, suq di stand minuscoli concentrati in un angolo nascosto, come se il Salone si vergognasse pure di loro, che sarebbero le realtà in crescita. Zona che uno dei malcapitati standisti ha battezzato appropriatamente l’“Inculatoio”. Ci sarebbe anche da dire dell’Oval, dove spiccano gli stand regionali, uno più brutto e inutile dell’altro, e quello dell’Emilia Romagna ha l’unico pregio di essere invisibile, e quindi discreto nel pressapochismo “fai da te” dell’allestimento. Bisogna avviare persino una ricerca per trovare dove hanno messo il nome…

La constatazione è che al Salone la differenza non piace, va resa inoffensiva, depressa, minimizzata. La gente si accalca ad ascoltare Moccia o Rampini o Nedved che con la cultura hanno poco a che fare (ma un Salone dedicato alla cultura non dovrebbe fare delle scelte culturali visto che sostiene di non farne di politiche?). I visitatori si aggirano come zombi in un supermercato per entrare a contatto con i libri delle solite case editrici (allo zombi piace lo sfavillio, l’odore della carne, il bagliore della memoria che gli ricorda colazioni da Tiffany che sopravvivono solo nella sua fantasia…). Eccoli tutti da Mondadori, Einaudi, Rizzoli, Bompiani, Guanda, Longanesi, Feltrinelli…

Un ragazzo arriva a uno stand di fumetti con una busta di Mondadori.

“Posso chiederti cos’hai lì dentro?”

Estrae vari Oscar Mondadori. Nella maggior parte dei casi classici.

“Ma scusa quelli li trovi in qualsiasi libreria italiana, come ti è venuto in mente di comperarli proprio qui?”

“Non so. Forse perché a casa non mi capita spesso di andare in libreria… Li ho visti, li ho comperati.”

Forse la soluzione giusta per lo stand era la sfera a specchi da discoteca. La musica c’era: “Besame, 
besame mucho 
como si fuera ésta noche 
la última vez…”