Nel maggio del 2011 ho avviato un
progetto di collaborazione con i bimbi della prima A della scuola elementare
Armandi Avogli di via Saragozza a Bologna. Il lavoro si è sviluppato attraverso
una serie di incontri che ha portato alla realizzazione di alcune opere di
diverso genere e formato.
L’idea che mi ero fatto
all’inizio era che avrei affrontato la forza originaria della loro creatività per
incanalarla in un progetto compiuto. Partivo dal presupposto che tutti abbiamo
sempre disegnato nell’infanzia; il disegno è infatti una delle attività più
spontanee e innate del nostro curriculum che con l’età la maggior parte di noi
inibisce e trascura per motivi contingenti spesso legati a un percorso di
studio e lavoro o perché paragona i propri manufatti a modelli qualitativi che
appartengono a un’ideale “sfera dell’arte” (che si fa forte di un suo supposto
“professionismo”). Ogni adulto che non disegna è perché a un certo punto della sua
vita ha smesso di farlo, mentre un bambino nel suo rapporto con il disegno ha
la naturalezza e la complessità di chi mescola immagini mentali e realtà in un
impasto unico che è rappresentazione e racconto del mondo così come lo
percepisce.
Da qualche tempo porto avanti un
percorso di esplorazione di territori segreti che si snodano all’interno della
mia mente. Disegni semiautomatici, con una vocazione vagamente surrealista, che
vanno a recuperare i detriti più reconditi della psiche, esseri nati da apocalissi
portatili o che risiedono in inferni che francamente è difficile temere. Era
come usare l’aspirapolvere negli angoli dell’inconscio, o estirpare una carie
da un dente… Un’asportazione che lascia un piacevole senso di pulizia, dando
un’impressione di compiutezza senza colpa. E non a caso pochissimi degli esseri
nati da quelle divagazioni di una penna a sfera su un foglietto di carta sono
veramente minacciosi: sono amichevoli, accettabili, e sicuramente terapeutici.
Mi sono chiesto allora se quel procedimento si poteva estendere ad altri, se il
benessere e la piacevolezza potevano essere condivise.
E i bambini, non ancora infettati
dai timori artificiosi, non primari, che ci perseguitano come esseri
socialmente strutturati, avrebbero dato il via a un’apocalisse e spalancato i
cancelli di inferni più sostanziali e veri? C’era – c’è – l’abisso in loro?
Forse, a cose fatte, si può dire
che a sei anni sono già troppo vecchi, ma sono sicuramente più vicini di un
adulto – nel senso anagrafico del termine – alla linea di confine della nascita
e a un territorio archetipico meno contaminato dalle suggestioni della cultura
e del gusto. Quindi andavano preparati a concentrarsi sul lavoro e a usare gli
strumenti per farlo, stimolandoli a un avventuroso viaggio di scoperta.
Andando controcorrente, è stato
necessario spiegargli che non ci sono disegni belli o brutti, ma che il disegno
ha un valore in quanto espressione e manifestazione di qualcosa di unico che
appartiene a chi lo fa. Quel valore per cui molto spesso loro regalano le loro
opere con trasporto come segno d’affetto. Un disegno è in fondo una parte di
sé. E che tutto ciò che emerge da un disegno ha diritto di esistere. Un disegno
può essere un punto di domanda o un’apparizione inaspettata ma non può fare male.
In un certo senso un disegno è sempre bello.
Detto questo anche i mostri
rintanati nei loro sogni non erano poi così terribili se potevano essere
disegnati, forse erano solo compagni di una diversa realtà… Figure che si
sottraggono al giudizio.
Ho mostrato loro il mio modo di
fare e i miei risultati invitandoli a non imitarmi ma a sentirsi liberi come
avevo cercato di esserlo io. Visto che non avevano mai usato prima una penna a
sfera, abbiamo prima fatto alcune prove a matita su piccoli foglietti di
newsprint di 14 cm x 10.
Poi abbiamo messo da parte i
foglietti per attaccare a terra un foglio di carta da scenario alto un metro e
mezzo e lungo più o meno tre… ed è iniziato il vero e proprio scatenamento.
Per la colorazione ho fatto
seguire ai ragazzi lo stesso procedimento naturale che avevo già sperimentato
sui miei mostri dell’apocalisse: materiali naturali, soprattutto cibo preso
dalla mensa, frutta, olio e anche erba… Il processo è diventato un vero
marasma, con lanci di tè e tisane, frutta e ortaggi maturi schiacciati sulla
carta, erbacce strappate dal cortile e strofinate. Un’opera gestuale, nata
dalla collaborazioni di venti personalità differenti (a volte in contrasto tra
loro nel tentativo di mantenere un’area riconoscibile ed estranea all’ingerenza
altrui…). Strappi e lacerazioni erano previsti e si sono puntualmente verificati…
L’inchiostro della penna a sfera
è particolarmente soggetto a decolorazione quando esposto alla luce diretta,
per non parlare dei colori di origine naturale. Una volta terminato il processo
di colorazione il grande foglio era bagnato e sgocciolante. La raccomandazione
ai maestri era stata quindi di esporre brevemente il foglio al sole, in cortile
vicino alla finestra della classe, per asciugarlo e di ritirarlo presto. Così
non è stato. Se lo sono dimenticato fuori, e quel lavoro di giorni, appena
finito, si è sbiadito velocemente.
A questo punto era difficile
ricostruire il percorso fatto per arrivare a del materiale che potesse essere
esposto senza un mio personale intervento. E sarebbe stato disonesto
rielaborare i disegni senza dichiararlo esplicitamente. Del resto tutto il
progetto era nato da un tentativo di collaborazione… Così ho ripreso i piccoli
schizzi “preparatori” a matita e li ho interpretati e riprodotti secondo le
consuete modalità con cui avevo lavorato ai miei inferni e alle mie apocalissi.
Poi ho cercato di recuperare la forza originaria del grande pannello
intervenendo come potevo, riportando brutalmente in luce i disegni svaniti.
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