venerdì 31 dicembre 2010

APOCALISSE QUATTRO











Altri disegni dal progetto artistico "Apocalisse", realizzati con penna a sfera, inchiostro nero, su fogli cm14x10 di carta Newsprint, colorati con materiali provenienti dalla vita quotidiana...

mercoledì 29 dicembre 2010

CHICAGO BLUE


Ma è proprio inevitabile che osservando il buio ne emergano figure provenienti dal passato? Questo è il buio di un altro paese, sono le tenebre di Chicago che gravano sul lago Michigan, allora cosa ci fanno tutti questi fantasmi di gente che sostiene di essere ancora viva? Perché non le coste brillanti, frastagliate e sbriciolate della Groenlandia vista dal cockpit dell’aereo? Bianche e pure, un biancore che non sa di spettri, di ombre viventi, ma di infinito. L’aereo sembra immobile e il mondo gli gira sotto, un’attrazione del luna park. “Stiamo volando più bassi a causa di un problema di pressurizzazione e il cielo così terso capita di rado.” Il mare sbocconcella lastre di ghiaccio e le sparpaglia nella sua vastità. La Groenlandia si allontana. E tornano le apparizioni. In particolare, stampato nella pioggia fredda e scura, un volto che il lutto non ha ancora trascinato via. Ha le labbra esangui come si addice a un’apparizione. Si muovono, dice qualcosa, ma chi ha più voglia di stare ad ascoltare le sue bugie?

“Scendi le scalette, c’è un sottopassaggio che porta direttamente al lungo lago.” All’una di notte la Groenlandia si lascia sopraffare dallo spettro, e si mescola all'elenco dei desideri: colazione a base di pancake, un barattolo di burro di arachidi crunchy da Whole Foods, camminare tra i grattacieli fino a consumare le cartilagini delle ginocchia, vedere la "Grande Jatte", "Nighthawks" e "American Gothic" all’Art Institute… il cuore salta in gola all’idea di trovarli insieme, come quella volta della "Madonna del Prato" di Raffaello al Kunsthistorisches Museum di Vienna, con le lacrime agli occhi nell’assistere a tanta luce e tanto colore raccolti nello spazio di un quadro, qualcosa che la natura non sarebbe mai stata capace di fare. La pioggia penetra gelata nelle maglie del berretto di lana. Al ristorante giapponese una chiamata, numero sconosciuto; una voce femminile chiede timidamente se nome e cognome corrispondono. “Sì, sono io. Sono a Chicago.” “Ah, è per la carta di credito, autorizziamo la spesa?” “Certo. Chiamate per importi del genere?” “Una verifica, non si sa mai. È al di fuori dalla sua solita area di utilizzo…”

Perché continuare a tornare indietro con i pensieri? Cosa c’è che non va in questa camminata solitaria? Nel cielo corrono nubi che sfumano il nero. Ontario Street è deserta, le scalette e il sottopasso illuminato da luci al neon. Il rumore dei passi e sopra il traffico notturno sulla Lake Shore Drive, con le macchine che sciabordano mentre il lago se ne sta calmo. Una figura incappucciata dalla parte opposta. Uno studente in hood con la tracolla. Scuote la pioggia da un ciuffo di capelli che esce dal cappuccio. Cosa si fa in questi casi, bisogna salutare? Questa volta no: lui prosegue guardando davanti a sé.

Non è il momento giusto per fare jogging sul lungo lago. Il parco è spazzato da folate di una pioggia che ora diventa sottile come nebbia. Appare improvvisa la statua di bronzo di un uomo seduto su una sedia di bronzo. Il lago assorbe qualsiasi pensiero, un finto mare che si estende all’infinito, risucchia le tenebre e le rende quiete. Annega i fantasmi nell’eccitazione di un enorme e silenzioso spettacolo privato.

Autobus e taxi sono cetacei addormentati vicino al Navy Pier, all’ingresso del Childen’s Museum. L’obiettivo è arrivare fino all’estremo limite al Shakespeare Theater. Le luci delle giostre e della grande ruota splendono di luce cristallina in lugubre attesa di tutti coloro che stasera non verranno. Un appuntamento disatteso è il preludio dell’abbandono, per luoghi e persone.

Cosa farebbe Lot in una situazione simile? Arrivato alla fine del molo si getterebbe in acqua. Invece dietro le spalle si rivela il profilo ingioiellato di Chicago: geometria solida di luci che si arrampicano fino alle vette della Sears Tower, riflessi d’oro e argento, e poi di giallo vivo e ocra di luci smorzate, il blu e il rosso. Il bianco delle finestre degli uffici percorsi dal turno di pulizie, le ghirlande del traffico…

Il ritorno sul lato opposto, dove i traghetti dormono ormeggiati in fila lungo il molo e le biciclette in affitto li imitano sotto le tettoie. L’odore di grasso animale esce dalla porta di un ristorante mentre un inserviente trascina fuori un bidone pieno.

Poi, lungo la Illinois Street, un uomo nella sua auto parcheggiata fuori da un club, bronzeo mentre parla al cellulare. Voglia di mangiare una banana e una deviazione al supermercato notturno prima di rientrare in albergo.

Niente foto, please, la foto ferma un’immagine che deve rimanere libera di muoversi nella testa. La foto va bene solo per chi non c’era.

timing 14 novembre 2010

mercoledì 8 dicembre 2010

IL CIRCOLO DEGLI SCRITTORI DI VILNIUS




È vicino alle poste centrali. Markus ha descritto per tutto il percorso i pregi dell’influenza tedesca sulla Lituania. Davanti a una strada che rompe maestosa e vagamente inutile il groviglio delle stradine dell’ex ghetto ebraico dice con enfasi “Questa l’hanno fatta i tedeschi!” Orgoglio che forse ha origine nella controversa spartizione tra nazisti e sovietici con il patto Molotov-Ribbentrop, in base al quale i lituani si trovarono ceduti al ferreo regime sovietico di collettivizzazione della proprietà e, forse per contrasto, per ribellarsi all’espropriazione dei beni individuali e allo sradicamento dalle loro tradizioni operati sistematicamente dai sovietici, simpatizzarono per i tedeschi. Nel momento sbagliato.

“Ma dove sono finiti gli ebrei di Vilnius?”

“Nel 1941 furono rastrellati e portati su una delle colline vicino in 70.000 e uccisi subito sul posto a colpi di mitragliatrice.” La sua risatina ha il ritmo di un singhiozzo. Pur nell’imbarazzo, ha un suono sinistro come se l’immediatezza di condanna ed esecuzione fossero segno di civiltà.

L’ingresso al Circolo degli scrittori non lascia presagire l’interno: è anonimo, un portone come tanti, orlato di rifiniture. Dietro l’uscio, nell’atrio scuro, si apre una scalinata di legno che si perde nel buio di un piano superiore segnalata a un certo punto solo dal riverbero rosso della passatoia consunta. Il legno delle scale è bruno, così come il corrimano che in alcuni tratti ha perso la lucidatura a forza di essere strofinato dalle mani acide (conciate dal tannino di sigarette e sigari) degli scrittori. L’atrio è sovrastato da un ballatoio massiccio, con le balaustre rette da colonnine, che lo circonda e il soffitto è un ricco cassettone adornato da stucchi argentei o dorati, con motivi floreali stilizzati. Il colpo d’occhio è lo sfarzo austero ed esclusivo dei tradizionali club britannici riservati a facoltosi signori in cerca di isolamento. Poi iniziano a emergere le crepe.

La vernice sui muri è scrostata, esplosa, squarciata dall’interno. La custode, recintata a fianco dell’ingresso da una balaustra di legno, siede su una vecchia poltrona sfondata sopravvissuta alla rottamazione di un aereo dell’Aeroflot (o forse somiglia solamente a una poltrona d’aereo). Lei ha l’aspetto tipico delle donne locali che hanno superato la mezza età: il volto si è mascolinizzato. Basta fare il confronto con le più giovani: con l’età i tratti somatici sembrano allontanarsi dal centro del viso con la stessa determinata lentezza della deriva dei continenti. E prefigurano un collasso a venire dell’espressione. Le sue spalle alte e larghe da nuotatrice sorreggono un vestito informe che cade a piombo. Somiglia a un armadio foderato di stoffa con un accenno di baffi. Chiunque le chieda della toilette, lo afferra per il gomito e lo sospinge verso una scala che scende nel buio introdotta da vigili sentinelle: scope, bastoni, secchi e prodotti per le pulizie. Risponde alle richieste con gesti bruschi, da vigile indaffarato a un incrocio nell’ora di punta e spedendo l’interlocutore nella direzione giusta come se invitasse una macchina a non intralciare.

Nei bagni vagano tubi di rame rotti su un muro che è una geografia di piastrelle rotte. La luce è precaria, gialla. Tutto è frantumato, sconnesso, il pavimento è solcato dalle crepe. Troppo per non essere ovvio, una metafora del disfacimento lasciata a disposizione dei visitatori. Disprezzano i russi e la civiltà collettivizzata dell’Unione Sovietica pur continuando a utilizzarne il lascito. Stracci e detersivi s’incagliano nei solchi: pisciare qui in mezzo è il gesto liberatorio del sopravvissuto a una catastrofe.

La vecchia porta della saletta della direzione del Circolo al piano terra è di legno dipinto, tempestato di cornici, su cui è stata applicata in tempi recenti una serratura di fortuna di plastica bianca. Dentro il busto di chissà quale personaggio della cultura locale o sovietica è buttato su un mobile. Tutto viene giù a pezzi, mobili e scrivanie (e vecchi computer) sono posizionati come se fossero in un magazzino. È un posto che ha oltrepassato la parodia più pacchiana per raggiungere il sublime. Su un tavolino basso una scatola di cioccolatini scuri, ripieni, con una perfetta superficie levigata; il loro aspetto bronzeo è un invito. Nessuno li offre ma assaggiarli è inevitabile. Sono pericolosamente buoni, sembrano la chiave per accedere a un’epoca precedente, in cui tutto era scuro, lucido e sicuro, il prodotto di un’idea priva di incertezze e sbavature. Un’idea che trafiggeva ogni debolezza.

Infine la lettura nella saletta delle conferenze, un trionfo di stucchi, drappi impolverati e sopravvivenze tra cui una vecchia stufa di ghisa in un angolo. Un posto dorato, quasi caldo, in cui la gente ascolta con attenzione. “Non si preoccupa di quello che diranno i suoi genitori quando leggeranno il romanzo?”

timing: 12 ottobre 2010 - foto: courtesy A. Ruchat